In questi giorni ha fatto molto discutere un articolo pubblicato su Science che sembrerebbe evidenziare dei lati oscuri nel mondo dell’editoria scientifica open-access. L’autore del lavoro, John Bohannon, raccconta di avere mandato a 304 riviste scientifiche ad accesso libero un articolo volutamente infarcito di errori metodologici grossolani, con lo scopo di mettere alla prova il processo di revisione delle riviste suddette: sorprendentemente, ben 157 riviste hanno dichiarato che l’articolo meritava di essere pubblicato. La maggior parte di queste erano riviste già note per essere poco affidabili (comparivano nella blacklist curata dal prof. Jeffrey Beall), ma anche riviste più dignitose hanno abboccato allo scherzetto di Bohannon. Per capire la portata di questo risultato e inquadrarlo nel giusto contesto, occorre fare un passo indietro e spiegare come vengono pubblicati gli articoli scientifici nel mondo accademico. Quando un ricercatore vuole pubblicare un articolo che descrive la sua scoperta, lo manda a una rivista accademica specializzata; questa dà una prima rapida occhiata per capire se il lavoro è sufficientemente interessante per i suoi lettori (riviste molto quotate come Nature e Science richiedono standard molto elevati), dopodiché spedisce la bozza ai reviewer, cioè altri scienziati del settore (spesso due o tre) che hanno il compito di leggere attentamente l’articolo e fornire un parere tecnico. Il responso può essere positivo, e allora l’articolo viene pubblicato, oppure negativo, magari per qualche errore di metodo oppure perché le conclusioni degli autori non sono supportate dai risultati sperimentali. Il più delle volte, si verifica una situazione intermedia: i reviewers segnalano agli autori le correzioni da fare, e dopo un tira e molla più o meno lungo si arriva al responso definitivo. Questo processo, denominato peer-review o revisione tra pari, è o dovrebbe essere il marchio di qualità per una pubblicazione scientifica, ed è proprio questo a non aver funzionato con l’articolo di Bohannon: la maggior parte delle riviste interpellate hanno deciso di accettare l’articolo, dimostrando di non aver effettuato nessuna peer-review o di averla fatta in modo molto superficiale. Non è un problema da poco, perché la revisione tra pari serve anche a togliere dalle spalle dei ricercatori il peso di dover controllare minuziosamente le pubblicazioni scientifiche dei colleghi, che in questo modo sono invece già state approvate dalla comunità scientifica. Per pianificare i loro esperimenti, gli scienziati si basano sui lavori pubblicati da altri: per questo, per evitare l’amplificazione degli errori, è fondamentale che ogni pubblicazione passi il vaglio della peer-review.
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Riviste inaffidabili – Per fare carriera, uno scienziato deve pubblicare il più possibile. Le performance dei ricercatori, anche nell’ottica dell’assegnazione dei fondi statali, vengono valutate sulla base del numero di pubblicazioni. Publish or perish. Pubblica o muori (professionalmente, s’intende!). Con questa domanda crescente, c’è il rischio che appaiano dal nulla editori senza scrupoli con l’unico obiettivo di avvantaggiarsi della fame di pubblicazioni.
Revisione inefficiente – Più sopra non ho detto una cosa a proposito dei reviewer: essi forniscono la loro consulenza a titolo gratuito. Come scrive il prof. Greg Hickok sul suo blog, i ricercatori più anziani ed esperti sono spesso sommersi da richieste di review, un lavoro che porta via tempo ed energie. Non avendo neppure un incentivo economico, essi tendono a declinare l’invito, con il risultato che spesso i reviewer sono dei giovani scienziati all’inizio della loro carriera, i quali pur di aggiungere una stelletta al loro curriculum accettano anche di lavorare gratuitamente. Spesso – dice Hickok – questi giovani ricercatori fanno delle ottime revisioni, ma sicuramente peccano di esperienza e possono commettere errori di valutazione. Inoltre, legato a questo problema c’è anche quello delle tempistiche: dal momento che trovare ricercatori disposti a fare review non è facile, spesso passa moltissimo tempo prima che un articolo ottenga un responso definitivo da parte della rivista. Nel caso delle riviste open-access, poi, esiste come dicevo il rischio che un editore chiuda un occhio su un articolo non particolarmente brillante pur di raggranellare qualche migliaio di euro. Tutte queste cose vanno a discapito della qualità degli articoli pubblicati, e allungano le tempistiche.
Trasparenza – I cittadini hanno il diritto di sapere dove vanno a finire le loro tasse, un diritto che – inutile girarci intorno – può essere garantito solo passando a un modello di pubblicazione open-access. Il paywall imposto dalle riviste a pagamento è alto: un abbonamento annuale a Nature costa più di 200 euro, mentre per Science il prezzo è 150 dollari. Indipendentemente dalla cifra, però, si tratta soprattutto di una questione di principio: le ricerche sono finanziate con soldi pubblici, di conseguenza è comprensibile che il privato cittadino pretenda di conoscere i frutti del suo investimento senza che qualcuno gli chieda di sborsare altri soldi.
Costi elevati – Se un abbonamento per un singolo utente costa 200 euro, immaginate quanto possa pagare un’università pubblica o un ente di ricerca per garantire l’accesso a tutti i suoi ricercatori, professori e studenti. Moltiplicate questo numero per tutte le riviste a cui i gruppi di ricerca potrebbero essere interessati ed otterrete una cifra astronomica. Pensate che a volte, persino l’autore dell’articolo stesso è costretto a pagare la rivista per poterne avere una copia, se questa non è coperta dall’abbonamento dell’università. D’altra parte, se anche tutte le riviste si convertissero al modello open-access, le università non smetterebbero di spendere: pubblicare un articolo su PLoS ONE, ad esempio, costa circa 1000 euro ed è anche una delle riviste più economiche.
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