Agente: «Siediti, Farfur...Farfur, vogliamo comprare la terra, ti daremo un sacco di soldi. Avrai moltissimo denaro e noi prenderemo i documenti»Farfur: «No! Noi non venderemo le nostre terre ai terroristi!»A: «Farfur! Voglio che mi dai i documenti! Dammi i documenti!»F:«Non ti do i documenti! Non te li do»A: «Farfur!» (lo picchia) «Farfur! Dammi i documenti!»F: «Non li darà a dei criminali, a dei terroristi!»A: «Ci stai chiamando terroristi, Farfur?» (lo picchia violentemente) «Prendi questo! Prendi questo! E questo! E questo!»F: «Fermati! Fermati!»
A questo punto la telecamera inquadra la giovane conduttrice, che con occhio triste dice: «Abbiamo perso il nostro amico più caro, Farfur. Farfur è diventato un martire, proteggendo la sua terra. È diventato un martire per mano dei criminali, degli assassini. Gli assassini di bambini innocenti...»
«Topolino è morto da Shahid». «Topolino è morto da martire», titolarono i giornali occidentali nei giorni immediatamente successivi. Il personaggio di Farfur, infatti, era ricalcato – almeno nelle fattezze fisiche – su uno dei simboli più noti della cultura occidentale come il personaggio nato dalla matita di Walt Disney nel 1928.
Il programma è stato chiuso, ma quanti altri “Farfur” ci sono in giro? Quanti altri bambini, in questo preciso momento, vengono indottrinati da personaggi e programmi di questo genere?
Facciamo che io salto in aria...
Da un lato la coercizione: la scelta – consapevole – degli adulti di plagiare i bambini facendogli credere che “l'onore dello Shahid”, l'onore del martirio, sia l'unico “onore” a cui ci si possa e debba votare. Dall'altro lato, all'estremità opposta, ci sono i bambini di questo video – che secondo quanto detto da Ahsan Masood, il primo a pubblicare il video su Facebook, dovrebbero essere pashtun del Waziristan, al confine tra Afghanistan e Pakistan – che la guerra la “giocano”, la “simulano” esattamente come i loro coetanei occidentali.
In mezzo ai due estremi c'è Abdus Salam, che non è diventato un martire solo perché «non aveva ancora la barba» e che quindi poteva fare attentati solo in Pakistan mentre lui voleva andare in Afghanistan (così come racconta lui stesso alla BBC: http://www.bbc.co.uk/news/world-south-asia-11632707); c'è quel bambino che, a Kirkuk (Iraq) nel 2005 si è lanciato contro la macchina del capo della polizia locale Khattab Abdallah Areb e che poteva avere «tra i 10 ed i 13 anni»; c'è quella bambina che hanno fatto saltare in aria poco meno di un mese fa nella provincia di Uruzgan, nell'Afghanistan meridionale, che si è ritrovata “suicidata” a soli 8 anni. Sono circa 5.000, come denunciato dal Daily Times, i bambini che tra il Pakistan e l'Afghanistan vengono addestrati a diventare piccoli suicide bombers. Nonostante questo, però, è raro vedere campagne di sensibilizzazione del problema da parte delle organizzazioni internazionali che difendono i diritti umani universali (d'altronde di Sakineh c'è n'è una sola...).
Nel mezzo c'è Tehrik-e-Taliban Pakistan (“Movimento degli studenti del Pakistan”, TTP), un “cartello” di gruppi taliban (tra i quali fino a qualche tempo fa anche il clan Haqqani) associatisi ad Al Quaeda quattro anni fa sotto la guida di Baitullah Mehsud, morto nel 2009 in seguito ad un attacco dei droni statunitensi.
La nursery dei piccoli kamikaze
È proprio dal Waziristan meridionale che partono molti piccoli suicide bombers che colpiscono tra Pakistan e Afghanistan.
È in queste terre, infatti, che i taliban hanno creato dei veri e propri “campi di allevamento”, come quello di Mingora, dove sarebbero stati addestrati circa 1.500 ragazzi, per lo più orfani o figli delle famiglie più povere della regione, spesso rapiti o acquistati con l'inganno di un futuro migliore, come racconta Sharmeen Obaid-Chinoy – produttrice cinematografica pakistana – in “Children of the Taliban”:
I taleban sfruttano quelle stesse dinamiche economiche e sociali (quali la povertà e l'appartenenza alle classi più povere) che sono poi – dall'altro lato del mondo – le dinamiche con cui si “rimpolpano” gli eserciti che esportano democrazia e libertà. «Insegnano ai bambini il Corano, il libro sacro dell'Islam, in arabo. Una lingua che questi bambini non capiscono e non parlano» - continua la produttrice, che per realizzare il suo documentario (andato in onda sull'emittente americana PBS) è entrata all'interno di una scuola per attentatori suicidi:
«Credo che i taleban possiedano uno dei più efficaci mezzi di propaganda in assoluto. I filmati cui si servono vengono integrati con fotografie di uomini, donne, bambini morenti in Iraq, Afghanistan e Pakistan. Il messaggio centrale comunica che alle potenze occidentali non interessa se muoiono civili», e continuare a bombardare obiettivi “militarmente sensibili” come una scuola di bambini affetti dalla sindrome di Down con i droni o a farlo attraverso i satelliti standosene comodamente seduti da qualche parte in Nevada (la chiamano “tecnologia”, non sarebbe forse più giusto chiamarla “codardia”?) non va certo a migliorare la situazione...
Piccoli adulti nello scontro di civiltà?
«Significa che non si trovano più adulti disposti a morire per il jihad? Sicuramente i bambini kamikaze rappresentano un fenomeno nuovo e in continua crescita. Da una parte, questo dice molto della difficoltà dei terroristi a reclutare kamikaze, dall'altra conferma la loro spregiudicatezza»
[da un'intervista a Giulio Meotti, giornalista del Foglio, a Tempi.it]
Leggendo questa risposta (per l'intervista integrale cliccare qui: http://www.tempi.it/meotti-foglio-bambina-kamikaze-pakistan-talebani-segno-di-un-fenomeno-crescita) – e dandola, ovviamente, per buona – mi sorge un dubbio: se dunque l'uso dei bambini-kamikaze, contrariamente a quello che si è sempre detto e scritto, non rispondesse a logiche “barbare” e “appartenenti ad una cultura arretrata” ma, più semplicemente, ad una molto più materiale crisi di vocazione? Se, in qualche modo e con le ovvie differenze, quei bambini addestrati a farsi saltare in aria fossero solo il rovescio della medaglia dei loro coetanei occidentali, dove da un lato – quello “terroristico” - si chiede ai bambini di diventare kamikaze e dall'altro – quello “occidentale” - li si trasforma in piccoli fenomeni da baraccone per le pubblicità di qualche giornale patinato o qualche trasmissione televisiva in cui cantano canzoni i cui testi sarebbero difficilmente frutto della loro esperienza personale?
Siamo davvero sicuri che avesse ragione Samuel Huntington a parlare di “scontro di civiltà”? Non sarebbe forse più giusto parlare di scontro all'interno di una stessa “civiltà”?
D'altronde quel «La donna impari in silenzio, con tutta sottomissione. Non concedo a nessuna donna di insegnare, né di dettare legge all'uomo» che sembra essere stato scritto per le donne afghane ed i loro burqa, non è quanto scriveva San Paolo – o chi per lui – a Timoteo (minuto 2:51 del “Processo a Ipazia”: http://youtu.be/dH0l2avv_Ok e quel vescovo Cirillo che sembra tanto il Bin Laden dei video ad Al Jazeera...)?