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L’Egitto di al-Sisi sullo scacchiere mediorientale

Creato il 03 ottobre 2014 da Bloglobal @bloglobal_opi

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di Sara Brzuszkiewicz 

A poco più di tre mesi dall’elezione di ‘Abd el-Fattah al-Sisi a Presidente, la Repubblica Araba d’Egitto, che sembrava avviata a recuperare una stabilità che pur scontentava molti, rischia di immergersi in una nuova fase di più acuta violenza interna, peraltro mai del tutto sopita, nonché di tensioni sul fronte libico e nel Sinai, sempre più vitale nel quadro della questione israelo-palestinese.

Lo scorso 21 settembre, in concomitanza con la partenza di al-Sisi per New York dove ha partecipato per la prima volta all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, alcune esplosioni si sono verificate al Cairo, a Tanta e El-Mahalla nel governatorato di Gharbiyya e sulla linea ferroviaria tra la capitale e Zaqaziq, nel governatorato di Sharqiyya. Nell’esplosione avvenuta al Cairo accanto al Ministero degli Affari Esteri hanno perso la vita due ufficiali, tra cui il colonnello Mahmud Abu Serei, uno dei testimoni d’accusa nel processo intentato contro il deposto Presidente Mohammed Mursi per l’evasione dal carcere di Tora nel 2011, processo per il quale proprio il 21 settembre si è tenuta un’udienza poi aggiornata a ottobre. L’attentato è stato rivendicato il giorno stesso dal gruppo islamista di recente formazione, Ağnad Misr (I soldati dell’Egitto), con un comunicato che definisce l’attacco un’azione “punitiva” e che esprime la volontà di non fermare le violenze.

Violenze interne: rappresaglie ed omicidi politici – Più che vivere un’effettiva stabilizzazione interna, l’Egitto di al-Sisi ha tristemente imparato a convivere con frequenti attentati non solo nelle aree calde di confine, ma anche al cuore del Paese. Dalla deposizione del Presidente Mohamed Mursi ad oggi solo al Cairo gli attacchi di media e ampia portata sono stati dodici. Quello dello scorso 21 settembre assume una rilevanza peculiare se ne si osserva il volto ambivalente. Esso, infatti, ha in primo luogo alcune caratteristiche – quali il giorno e il luogo scelti – dell’azione di vendetta, in questo caso contro il processo in atto, la repressione dei gruppi islamisti e in generale l’apparato governativo di al-Sisi. Al tempo stesso, però, possiede anche i connotati di un attacco ad personam, nel quale è stato infatti messo a tacere uno dei maggiori testimoni nel processo contro Morsi.

Non è la prima vendetta mirata: di omicidio politico si trattò ad esempio il 17 novembre 2013, quando venne ucciso l’ufficiale della Sicurezza Nazionale Mohamed Mabruk, coinvolto, come oggi Abu Serei, in indagini sulla Fratellanza e sui gruppi jihadisti attivi in Egitto, attentato che venne poi rivendicato da Ansar Beit al-Maqdis. Il 5 settembre dello stesso anno sopravvisse al tentato omicidio il Ministro dell’Interno Mohamed Ibrahim e vennero ferite 22 persone, mentre tra gli episodi più recenti vi è quello del 28 gennaio di quest’anno, in cui il Generale Mohamed Said, come Ibrahim funzionario dell’Interno, è stato assassinato senza rivendicazioni successive.

Nonostante la spirale di insicurezza interna dal quale l’Egitto non sembra sia uscito, a preoccupare maggiormente al-Sisi sono però i territori di confine, dato che le sorti delle aree circostanti, in particolare di Libia e Gaza, sono direttamente connesse con la disponibilità di armi all’interno del Paese, nonché con le difficili decisioni circa lo stanziamento di uomini e mezzi sul territorio egiziano.

Libia/1: cosa teme al-Sisi – Ciò che sovente viene definito effetto spill over di un conflitto in un altro Stato – se ne parla soprattutto per quanto riguarda la guerra siriana e la situazione irachena –, nel caso dell’anarchia libica in rapporto all’Egitto questo rischia di assumere connotati peculiari e di ardua risoluzione. ‘Abd el-Fattah al-Sisi è oggi consapevole del fatto che lo spill over della guerra civile libica nel confinante Egitto è già in corso e consiste non tanto in una rapida estensione delle aree di scontro ad un altro Paese, quanto in un progressivo, inesorabile aumento dell’insicurezza generale in quest’ultimo. Ciò è determinato da tre fattori fondamentali: l’azione delle molteplici milizie islamiste in Libia, i traffici di armi dalla Libia all’Egitto e le ondate di migranti libici e di egiziani di ritorno in patria per sfuggire alle violenze generalizzate.

Per quanto riguarda le forze islamiste, sono quelle di Bengasi a preoccupare al-Sisi, soprattutto per ragioni di prossimità geografica. Esse sono oggi organizzate nel Consiglio della Shura di Bengasi, che comprende, tra le altre, Ansar as-sharia, responsabile dell’attacco al consolato statunitense del 12 settembre 2012 proprio a Bengasi. Nel frattempo il Governo ha abbandonato la capitale, insieme al Parlamento eletto quest’estate, e si è rifugiato nella città di Tobruk, anch’essa vicina al confine orientale. Attualmente Tobruk è sotto il controllo del controverso generale Haftar, strenuo oppositore dei jihadisti ed in possesso, pur non facendo parte dell’esercito regolare, di un notevole quantitativo di armamenti seppur di un’esigua forza aerea. Gli sconfinamenti delle violenze in territorio egiziano sono sempre più frequenti. Lo scorso 19 luglio ventuno guardie di frontiera egiziane sono state uccise nei pressi della cittadina di Farafra, nel governatorato di Wadi el-Gedid, sul confine con la Libia ed il 6 agosto nei pressi della mediterranea Marsa Matruh, meta delle vacanze estive di migliaia di egiziani, un nuovo attacco ha provocato cinque vittime.

In quella che comincia a buon diritto ad essere definita una “somalizzazione” della Libia, i movimenti incontrollati di armi attraverso il permeabile confine occidentale sono il secondo timore di al-Sisi. Già nel 2011 Sameh Seif el-Yazal, un ex-membro dell’intelligence egiziana, avvertiva del pericolo che l’Egitto diventasse un corridoio primario nel traffico di armi e dichiarava che parecchi missili terra-aria erano stati intercettati lungo la strada che nel deserto collega la Libia con Alessandria e che prosegue nel nord verso Gaza. El-Yazal dava inoltre come fortemente probabile l’accordo di alcuni gruppi palestinesi con i trafficanti libici per ottenere nuovi missili. Nel corso degli ultimi tre anni l’intensità del traffico d’armi è cresciuta con cifre difficilmente calcolabili; ciò che appare certo è che sul mercato nero egiziano sono apparsi modelli di armamenti introvabili nel Paese fino alla morte di Gheddafi. Il fenomeno segue due rotte parimenti allarmanti, l’Egitto è infatti alternativamente meta definitiva e tappa intermedia dei traffici. Gli esperti sostengono che molti dei missili da Gaza verso Israele lanciati nel 2012 erano missili Grad (così è conosciuto il BM-21) e che questi fossero stati ottenuti da fonti libiche. Ancora nel novembre 2012 le autorità egiziane avevano intercettato un carico di 108 Grad al porto di Marsa Matruh, mentre armi russe di provenienza libica sono state trovate anche nelle mani dei gruppi takfiristi nel Sinai [1].

A rendere il controllo dei traffici ancora più complesso concorre inoltre, come spesso accade nelle vicende egiziane, il fattore tribale. Tra egiziani dei governatorati confinanti con la Libia e alcune componenti della società libica intercorrono infatti legami tribali che ignorano i confini tra i due Paesi e indeboliscono qualsiasi azione statale. Per quanto riguarda il secondo caso, quello in cui l’Egitto è meta ultima degli armamenti, alcune indagini sul campo rivelano che i residenti delle aree rurali nell’Alto Egitto sono i principali acquirenti e che non è raro per le famiglie accumulare enormi arsenali grazie ai quali creare veri e propri nuovi feudi nel proprio villaggio. Tale fenomeno risulta indubbiamente favorito dall’humus culturale delle campagne dell’Egitto meridionale, caratterizzato da legami clanici secolari e faide interfamigliari sanguinose e talvolta tollerate dalle forze governative. In più, nulla vieta alle famiglie della zona di rivendere in seguito le armi in loro possesso, rimettendo così in circolo nella rotta jihadista armi che prima, seppur non al meglio, ne erano uscite.

Per quanto riguarda i movimenti di persone, il fenomeno più allarmante è la migrazione di egiziani di ritorno in patria che, se da un lato rischia di assumere proporzioni enormi in rapporto a un mercato del lavoro impreparato a riaccoglierli, dall’altro vede migliaia di individui scegliere di rischiare la vita rimanendo in Libia, dove per chi lavora i salari restano migliori che in Egitto. Le stime ufficiali di parte egiziana calcolano che solo 20 mila connazionali hanno fatto ritorno, mentre sono ancora decine di migliaia gli egiziani oltreconfine.

Libia/2: le probabili azioni egiziane – Dalla fine di agosto i Report statunitensi circa alcuni attacchi via aerea in territorio libico, attuati secondo le fonti da Egitto ed Emirati Arabi Uniti, si fanno sempre più frequenti. Ad oggi tuttavia, il Presidente al-Sisi nega il coinvolgimento del Cairo e la stampa egiziana continua ad affrontare l’argomento esponendo le probabili iniziative egiziane per il futuro prossimo. Gli analisti internazionali poco propensi a dar credito ad al-Sisi si concentrano in particolare su due episodi: gli attacchi aerei che il 18 e 23 agosto hanno colpito l’aeroporto di Tripoli, sotto controllo delle milizie federate in Alba Libica. Secondo le fonti la dinamica degli attacchi, entrambi avvenuti prima dell’alba, suggerirebbe l’azione di cacciabombardieri degli Emirati, appoggiati da tanker del Cairo per i rifornimenti.

Fin dalla sua visita in Russia alla metà dell’agosto scorso, al-Sisi ha più volte ribadito di essere contrario all’ingerenza straniera in Libia. Secondo gli analisti egiziani una prima opzione potrebbe essere l’intervento militare diretto nel Paese confinante. Tale opzione si potrebbe dispiegare in tre modi: un’invasione di terra mirata a contribuire all’instaurazione di un governo leale all’Egitto, invasione alla quale seguirebbe un’occupazione fino alla formazione di autorità politiche solide e all’annientamento totale delle forze islamiste, almeno a livello politico. Un secondo scenario dell’intervento militare egiziano potrebbe essere costituito da un’incursione in territorio libico mirata però soltanto alla creazione di una zona cuscinetto lungo la frontiera per scongiurare il rischio di penetrazioni libiche in patria. Infine, l’Egitto potrebbe optare per raid aerei mirati, la cui cessazione non sarebbe subordinata alla fine della crisi libica ma solo ad arrestare gli schieramenti in grado di attuare attacchi terroristici oltreconfine.

La prima ipotesi risulta per ora ampiamente improbabile per molteplici ragioni: per il diritto internazionale sarebbe considerata un atto di aggressione; l’Egitto è sprovvisto di un interlocutore libico affidabile col quale intraprendere il percorso di ricostruzione politica e pacificazione nazionale; l’impresa richiederebbe risorse economiche e strategiche dal costo ancora difficilmente stimabile per l’Egitto. Inoltre, l’azione sarebbe invisa a gran parte dell’opinione pubblica per i costi dell’intervento e rischierebbe di rinfocolare la rabbia delle frange islamiste nel Paese. Anche il secondo scenario si rivela di difficile realizzazione e il risultato non è garantito e, come del resto anche il terzo che pur è meno irrealistico, ricadrebbe sotto la definizione di atto di aggressione.

Tutti e tre gli scenari appaiono dunque fortemente improbabili, a meno che non sia il Parlamento o il governo libico a chiedere ufficialmente la copertura aerea egiziana per operazioni sul territorio, richiesta oggi impossibile per lo stremato esercito regolare libico [2]. Quel che è certo è il fatto che le iniziative di al-Sisi sembrano sorprendere gli USA. Oltreoceano la maggioranza della stampa dà infatti per certi i raid aerei di Egitto ed Emirati ed evidenzia che, nonostante siano entrambi alleati e partner economici, questi ultimi non hanno tuttavia informato Washington delle iniziative. Se la notizia dei raid congiunti corrispondesse al vero, essa rivelerebbe una condotta diplomatica inedita da parte di Egitto ed Emirati Arabi, condotta mirata a una ridefinizione dei rapporti di potere regionali rispetto al Qatar e indirettamente agli alleati di quest’ultimo, prima fra tutti la Turchia.

Gaza/1: la mediazione di al-Sisi e l’offerta di terra – Un altro fondamentale terreno diplomatico sul quale al-Sisi è in parte riuscito ad accrescere la propria autonomia nei confronti del partner statunitense è stata la recente crisi di Gaza. Se la mediazione egiziana non si è dimostrata pienamente risolutiva (sono infatti ancora in corso al Cairo negoziati bilaterali tra Israeliani e Palestinesi), alcuni degli obiettivi di al-Sisi sono stati comunque raggiunti. Uno dei primi traguardi è stato quello relativo al ridimensionamento dell’asse Qatar-Turchia-Hamas, sostenitori della Fratellanza nell’area. Il Capo di Stato egiziano ha inoltre riconosciuto in Mahmud Abbas e in Fatah gli unici rappresentanti palestinesi al tavolo delle trattative.

Ai primi di settembre l’altalenante rapporto tra Egitto e Palestina ha poi visto un nuovo caso diplomatico venire alla luce, allorché i giornali israeliani hanno iniziato a riferire di una presunta offerta di terra da parte di al-Sisi ai Palestinesi. Si tratterebbe di un’area di 1.600 chilometri quadrati adiacente a Gaza, che accrescerebbe le dimensioni della Striscia di cinque volte la sua grandezza attuale. Il piano prevederebbe inoltre ampie forme di autonomia per le città della Cisgiordania che sono attualmente sotto il controllo dell’ANP. Ad Abbas verrebbe in cambio richiesto di abbandonare il progetto dei confini precedenti al 1967.

A prima vista, i termini della proposta appaiono molto vaghi e non è chiara né la sorte di Gerusalemme né cosa comporterebbe l’ampia autonomia.

Se una proposta simile venisse accolta dalle parti in gioco il reale vincitore sarebbe al-Sisi grazie al raggiungimento di due obiettivi di non poco peso: bilanciare la sua immagine di leader arabo troppo vicino agli interessi israeliani in patria e scaricare su autorità estere parte del problema dell’instabilità del Sinai e delle penetrazioni jihadiste nell’area.

Dopo i rumors sulla proposta, Abu Mazen sembra aver definito il piano “illogico”, ma, aumentando la confusione del caso, fonti del Ministero degli Esteri egiziano hanno parlato di falsità infondate, ricordando che tale ipotesi venne in realtà suggerita in passato dal deposto Presidente Mursi. In Israele le reazioni sono state eterogenee: dal Ministro della Scienza e della Tecnologia Yaakov Peri, ex capo del controspionaggio per l’agenzia di sicurezza Shin Bet, che ritiene che la proposta debba essere discussa più a fondo, alla parlamentare del partito Casa Ebraica Ayelet Shaked [3], che di positivo nella presunta proposta di al-Sisi vede la consapevolezza del fatto che il problema palestinese debba essere affrontato a livello regionale e non dal solo Israele, invitando perciò Netanyahu a discutere del piano. Pochi giorni dopo le prime voci sulla proposta, i portavoce di Abu Mazen hanno infine sostenuto che il progetto fosse una fabbricazione israeliana, attribuendolo all’ex capo del Consiglio di Sicurezza Nazionale Giora Eiland [4].

Difficile ricostruire la genesi e la fondatezza della proposta egiziana, ma proprio il suo carattere vago e indefinito potrebbe suggerire che essa fosse una strategia di al-Sisi per saggiare il terreno circa le reazioni israeliane e palestinesi e per comprendere fino a che punto l’ingerenza egiziana negli affari palestinesi venga tollerata.

Gaza/2: la ricezione egiziana della questione palestinese – Al di là del congestionato scacchiere politico mediorientale, anche nel cuore dell’Egitto, come da sempre accade, la questione israelo-palestinese viene approfonditamente analizzata e sovente strumentalizzata. La propaganda filo-governativa la sfrutta a proprio favore operando una quasi totale sovrapposizione tra Hamas e la Fratellanza.

I pro-Morsi insistono sulla mancanza di solidarietà panaraba ma soprattutto panislamica di al-Sisi in confronto all’ex Presidente, disseminando sui mass media e i social network cronache ricche di pathos circa l’indifferenza verso i fratelli palestinesi ignorati dall’Egitto “traditore” e riportando le invocazioni di Mursi che dalla cella esterna fedeltà alla causa. Wala Ramadan, giovane giornalista di Middle East Monitor, arriva a parlare, con altri pro-Morsi, di “sionismo egiziano” [5] ed evidenzia il rammarico dei cittadini di Gaza, spettatori di sensazionali esempi di solidarietà da parte dei cittadini dei Paesi occidentali di contro all’immobilismo arabo.

Concludendo – Di fronte alla prospettiva sempre più reale dell’epocale scontro tra i blocchi sunnita e sciita nella regione del Grande Medio Oriente, sovente il mondo sottovaluta le implicazioni delle divisioni interne all’universo sunnita. Egitto, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti da un lato e Turchia, Qatar e – parzialmente – Hamas dall’altro, costituiscono le teste di serie di due blocchi sempre più aspramente contrapposti a livello ideologico, politico e diplomatico.

Nello schieramento di appartenenza ‘Abd el-Fattah al-Sisi sta giocando partite delicate, la cui complessità risiede soprattutto nella scelta di attuare mosse inedite. In Medio Oriente gli uomini forti stanno misurando le proprie forze e la vittoria andrà a chi più si mostrerà solido e indipendente dall’influenza statunitense agli occhi delle opinioni pubbliche arabe.

* Sara Brzuszkiewicz è Dottoressa in Lingue e Culture per la Comunicazione e la Cooperazione Internazionale (Università di Milano)

[1] I Takfiristi costituiscono una corrente minoritaria del panorama islamista sunnita. Il loro nome deriva dal termine takfīr, che indica letteralmente “l’atto di accusare qualcuno di miscredenza”. La rigida interpretazione dei precetti islamici fa sì che a divenire loro bersaglio possano essere tanto i non musulmani quanto chi non viene ritenuto un buon credente.

[2] Nader Bakkar, Egypt’s options in dealing with the Libyan crisis (Part II), Al-Ahram 13 settembre 2014.

[3] Il nome della parlamentare trentottenne si è recentemente diffuso anche al di fuori del Medio Oriente allorché alla metà dello scorso luglio alcune frasi postate da quest’ultima sul proprio profilo Facebook hanno inorridito le opinioni pubbliche mondiali. La parlamentare è stata accusata di sostenere la necessità dello sterminio non solo dei combattenti palestinesi, ma anche delle loro madri e degli altri civili. Ferma restando la violenza del brano, nel quale i nuovi nati palestinesi vengono paragonati a “piccoli serpenti” che continueranno a moltiplicarsi se non si uccidono le madri, è doveroso precisare che tali dichiarazioni erano inserite in un brano assai più lungo nel quale la Shaked citava Uri Elitzur, un giornalista scomparso nel maggio scorso.

[4] Eiland ha recentemente rilasciato alcune interessanti dichiarazioni sul rapporto tra attacco militare e tutela dei civili di Gaza: In Gaza there is no such a thing as ‘innocent civilians’, YNet News 8 maggio 2014.

[5] Walaa Ramadan, a Zionist Egypt has emerged under Al-Sisi, Middle East Monitor 24 luglio 2014.

Photo credits: Maya Alleruzzo/AP

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