Magazine Poesie
Ognuno di noi ha un elefante nella stanza ma sono in pochi a rendersene davvero conto. Che sia un problema, una fissazione o una brutta abitudine poco importa. Facciamo finta di nulla pur di non mostrarci vulnerabili. La mia metafora trova il perfetto esempio nella compagnia del sabato sera, un miscuglio di ventenni sociopatici in perenne attesa di riscatto. A cominciare da Andrea: ieri aveva il raffreddore per aver aspettato 7 ore, seduto al freddo con molte centinaia di persone, l’uscita del nuovo Iphone. Le sue giornate sono scandite da azioni ripetute, compulsive. Sta sempre lì a messaggiare con persone che forse mai incontrerà e, raramente, presta attenzione a cosa gli accade intorno. Valerio, invece, si fa chiamare Allen come un personaggio delle serie tv che tanto ama. Ne conosce così tante e a tal punto da poter paragonare ogni situazione che gli capita alla corrispettiva irreale del telefilm. Ma quando gli chiedi cosa vuole fare nella vita e quanti esami gli mancano alla laurea, lui fa “boh” e continua a chiacchierare come se niente fosse.
Ci sono poi Ale e Mirko, la strana coppietta del gruppo. Ufficialmente non stanno insieme, sono soltanto amici ma sono sempre insieme. Ale è innamorata follemente di lui, mentre Mirko ama soltanto essere coccolato. Sono, quindi, inseparabili ma sostanzialmente soli a metà. Dulcis in fundo, c’è Luciana che soffre della sindrome del secchione impertinente, perciò, risulta antipatica a tutti i suoi colleghi. È quel tipo di persona che registra le lezioni dei professori e non le condividerebbe con qualcuno neanche morta. Trascorre pomeriggi interi a sbobinare ma non sembra aver imparato molto da ciò che studia con tanta apprensione. Nonostante ciò, è il totem del nostro gruppo. Il perché è evidente quanto triste. Di questa compagnia non ho citato una persona Io, timido, imbranato e pieno di complessi di inferiorità, con la difficoltà cronica di guardare negli occhi i miei interlocutori. Molto di tutto questo è dovuto all’apparecchio per i denti che devo portare. Tengo, così, la bocca chiusa in tutti i sensi. Non sorrido, non parlo, non grido quando la paura di non emergere mi fa galleggiare nell’apatia. I tatuaggi e piercing che porto sono l’unico spioncino sul mio tormentato mondo interiore, ma anche quelli, enigmatici ed ermetici, sembrano, ai più, “semplici scritte in giapponese”.
Fin da bambino mi sono sentito fuori luogo nelle scarpe che indossavo, diventato adolescente ho preso l’abitudine di nascondermi dietro personalità più carismatiche o confondermi nella folla, nella vana speranza che la loro luce potesse attenuare, almeno in parte, il buio della mia ombra. Buio che ha cominciato a prendere tonalità più chiare daquando ho conosciuto Cisko Ogni volta che penso a lui mi sento in colpa. L’elefante che occupava la sua stanza era talmente grande da invadere anche quella di coloro che gli volevano bene. Ho sempre accostato alla parola “cancro” soltanto il segno zodiacale, convinto che la malattia non potesse sfiorare il velo di immortalità che da ragazzi ci sentiamo addosso. Quando fu lui a farmela questa confessione, con una leggerezza che ancora mi da i brividi, ne rimasi sconvolto. E solo dopo, solo quando se ne andò, capii cosa davvero significasse avere l’occasione di esserci.... (Introduzione de “L’elefante nella stanza”, il mio racconto selezionato per la pubblicazione nell'antologia “Melodia letteraria”, Il Violino Edizioni)
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