Un'immagine è un metodo di rappresentazione secondo coordinate spaziali indipendenti di un oggetto o di una scena. Contiene informazioni descrittive riferite all'oggetto, alla scena che rappresenta: un'immagine è quindi una distribuzione (che può essere bi o tri-dimensionale) di un'entità fisica. Come forma di comunicazione, il linguaggio delle immagini è intrinsecamente indeterminato, evocativo, dotato di segni che assumono valore simbolico in relazione al significato che attribuiamo a ciò che osserviamo o al valore pragmatico degli scopi della comunicazione.
Da sempre le immagini hanno costituito una sorta di linguaggio dotato di segni che assumono significati particolari. Il linguaggio delle immagini è altamente evocativo e, in ambito multimediale, la comunicazione visiva riveste un ruolo fondamentale. Infatti, le immagini nella comunicazione multimediale costituiscono una sorta di linguaggio (visuale) che si affianca e si integra con quello testuale, possono diventare metafore, allegorie visive che potenziano l'usabilità dei sistemi interattivi o riproducono con esattezza di dettagli il reale.
Dall'iconofilia all'iconoclastia, un dibattito ricco e intenso di temi e suggestioni ha accompagnato la (ri)fondazione dello statuto dell'immagine nella storia dello sguardo in Occidente. L'interdetto biblico delle immagini (il non poter dare immagine a Dio e il non poterlo nominare) impegna in sottili e ferrate discussioni teologiche il secondo Concilio di Nicea (787 d.C.), che finalmente approda alla teoria dell'icona bizantina lì promulgata, aprendo così l'identità profonda dell'essere dell'immagine. E quando Giotto affrescava il ciclo pittorico della vita di San Francesco nella Basilica di Assisi, gli episodi dipinti venivano considerati la "bibbia dei poveri e degli analfabeti" contrapponendone la funzione alla lettura dei testi sacri, appannaggio dei dotti e delle classi agiate.
Questi precedenti dottrinali consentono di rileggere senza sconcertanti rimozioni o fratture la continuità problematica della stessa storia dell'arte, da Cimabue alle avanguardie novecentesche, come interna flessione della vita dell'immagine (la figuratività occidentale, rinascimentale, in una parola naturalistica e prospettica, meccanicamente contrapposta a quella orientale, iconica, idealistica e astrattizzante). Fino ai limiti della forma, nell'asse d'intersezione fra Gauguin e Kandinsky, propiziando una calibrata riflessione sull'immagine della realtà, su ciò che potremmo chiamare il destino dell'immagine, la sua metabolizzazione estrema, dove l'immagine precipita nella devoluzione tecnologica contemporanea, dalla fotografia e il cinema alla televisione e la cyberart, dal virtuale frattalico e la risonanza magnetica all'abbacinante orizzonte di panvisibilità nel quale oggi viviamo.
Nel corso della sua storia, la percezione dell'immagine è avvertita come ambigua e paradossale. In un originale e incisivo volume sull'argomento (Vita e morte dell'immagine), Régis Debray racconta che un imperatore cinese chiese al suo primo pittore di cancellare una cascata dipinta, perché lo scroscio dell'acqua non lo faceva dormire. Leon Battista Alberti consiglia invece a chi non riesce a prender sonno la contemplazione di dipinti raffiguranti fontane, fiumi e cascate: "L'acqua dipinta che disturbava il cinese - rileva Debray - calmava il toscano". Questi due casi eloquenti ci raccontano del potere misterioso delle immagini in tempi e luoghi diversi.
Servendoci degli strumenti della mediologia - in cui confluiscono storia dell'arte e delle tecniche, filosofia e scienza delle religioni, sociologia e storia delle idee - in una prospettiva che unisce ciò che l'Occidente ha sempre separato (spirituale e materiale, visibile e invisibile, essere e apparire, artisticità e tecnologia), è possibile ripercorrere la presenza dell'idolo, la rappresentazione dell'opera d'arte, fino alla simulazione dell'immagine digitale. La genealogia del nostro inconscio ottico, radicato nell'arcaica logosfera e sviluppatosi nella moderna grafosfera, ci mostra al contempo il nostro destino: la morte della società dello spettacolo e l'avvento, grazie alla rivoluzione numerica, della terza era, la videosfera.
"Con la videosfera, intravediamo la fine della "società dello spettacolo". [...] Eravamo davanti all'immagine, siamo nel visivo. La forma-flusso non è più una forma da contemplare, ma in fondo è un parassita: il rumore degli occhi. Tutto il paradosso della nostra terza era risiede nel fatto che essa conferisce la supremazia dell'udito e fa dello sguardo una modalità dell'ascolto. Si riservava il temine di "paesaggio" all'occhio e di "ambiente" al suono. Ora, il visivo è divenuto un'atmosfera quasi sonora e l'antico "paesaggio" un ambiente sinestetico e avvolgente. Fluxus è il nome della nostra epoca" (R. Debray, op. cit., ed. it., p. 229).
C'è chi, come Giovanni Sartori, vede il futuro pieno di incognite. L'incertezza più grave riguarderebbe il fatto che "stiamo uscendo dal mondo costituito da "cose lette" per entrare nel mondo delle "cose viste". La transizione passa attraverso un mezzo secolo - o anche meno - di "cose sentite", e cioè di ascolto della radio. Ma la radio è ancora, a suo modo, lettura. Chi abbandona il giornale per la radio smette di leggere, ma pur sempre "si fa leggere". Ed ecco che d'un tratto la televisione fa vedere. È una novità straordinaria, la rivoluzione che batte di mille e mille leghe tutte le rivoluzioni, inclusa quella della stampa". Tutto ciò determinerebbe il "video-potere" o videocrazia.
Negli anni Novanta, insieme con quelle di Sartori, sono emerse altre serie e motivate riserve sull'uso della televisione, che John Condry definisce "ladra di tempo, serva infedele". Il principale motivo di preoccupazione è dato dal fatto - come sostiene K.R. Popper - che "stiamo educando i nostri bambini alla violenza attraverso la televisione e gli altri mezzi di comunicazione".
Ciò non toglie che la nostra epoca è improntata ad una sorta di marcia trionfale dell'immagine, all'imporsi della potenza e della seduzione della sua muta eloquenza. Per l'uso distorto fatto spesso nella pubblicità, l'immagine è stata anche associata all'accusa di indurre alla persuasione occulta, alla falsa e ingannevole informazione.
Bisogna anche convenire che il discorso sulle immagini include un aspetto "inquietante": non è raro il caso di una sostanziale indistinguibilità tra immagini che ritraggono aspetti della realtà e immagini che sono la risoluzione grafica di astratti voli pindarici (per es., i cartoni animati giapponesi o un preciso filone di cinema di fantascienza). La fantasmagorica fiera delle immagini proposte in questi ambiti rende problematico distinguere tra fantasia e realtà, adempiendo la premonitrice intuizione di Nietzsche, per cui nel postmoderno "il mondo vero finì per diventare favola", accreditando e al tempo stesso screditando il virtuale.
In questo orizzonte culturale e su questo sfondo teorico si inscrive il tentativo di questa rivista di rivendicare il potenziale di verità e di emancipazione (all'interno di una comunicazione mediata esteticamente) del linguaggio delle immagini. Secondo l'intenzione e l'ambizione esplicitate nell'editoriale al n. 0, si tratta di "un magazine libero e di basso profilo che dà spazio alle immagini e risparmia le parole", senza "nessun orpello né barocchismo linguistico", con il conseguente rifiuto della sola parola scritta e puntando, invece, sulla forza ancestrale dell'immagine e sulla sua capacità di suscitare calde ed incisive emozioni.
La linea editoriale della rivista sottende una provocazione intellettuale: quella di dimostrare che il problema dell'invadenza dei mezzi di comunicazione di massa tocca il cuore della nostra società, ne permea l'ideologia, fornisce gli strumenti che ormai fanno parte del modo di parlare e di pensare quotidiano, e che perciò essi vanno indagati a fondo, senza apparire frivoli solo perché ci si dedica alla valorizzazione del linguaggio delle immagini. Bisogna convenire che, su questa strada, si è in buona compagnia.
In un suo libro ormai "classico", Apocalittici e integrati (1964), Umberto Eco ha concentrato, in un passaggio proposto in esergo sulla copertina di questo numero, il senso di questa sfida: "Una civiltà democratica si salverà solo se farà del linguaggio delle immagini una preparazione alla riflessione critica, non un invito alla ipnosi" (op. cit., p. 346). Come dire, il piacere dell'occhio non come anestetico e passatempo, ma come utile stimolo all'approccio critico, più di tanta scadente e dozzinale letteratura.
Per ulteriori approfondimenti:
H. Belting, Il culto delle immagini. Storia dell'icona dall'età imperiale al tardo Medioevo, trad. it. di B. Maj, Carocci, Roma 2001
M. Brusantin, Storia delle immagini, Einaudi, Torino 2002
G. Debord, La società dello spettacolo, trad. it. di F. Vasarri, SugarCo, Milano 1990
R. Debray, Vita e morte dell'immagine. Una storia dello sguardo in Occidente, trad. it. di A. Pinotti, Editrice Il Castoro, Milano 1999
D. Freedberg, Il potere delle immagini, trad. it. di G. Perini, Einaudi, Torino 1993
K. Kérény, Agalma, Eikon, Eidolon (1962), in Id., Scritti italiani (1955-1971), trad. it. di O.M. Nobile, Guida, Napoli 1993, pp. 82-97
P. Pellegrino, Etica & Media. Le regole dell'etica nella comunicazione, Congedo Editore, Galatina 2009
L. Russo (a cura di), Vedere l'invisibile. Nicea e lo statuto dell'Immagine, Aesthetica edizioni, Palermo 1997
G. Vattimo, La società trasparente, Garzanti, Milano 2000