L’energia degli schiavi[1]
Aprire gli occhi.
Il primo dolore – sottile, tumefatto – è il contatto dei piedi con il marmo del pavimento, o forse il semplice constatare di essere di vivi, orizzontali, e sgomenti. Alzarsi è un’altra faccenda: la luce delle sette e trentacinque è una sirena elettrica contro la parete, appena scostate le persiane, e l’acqua gelida smembra le rughe del sonno.
È una mattina nebbiosa. I vestiti sono accuratamente piegati su una seggiola, la tracolla è accanto alla scrivania. Fuori farà freddo, così t’infili una maglietta in più sotto il maglione a collo alto. Il caffè tiepido ti fa brontolare l’intestino, ma ignori i suoi lamenti. Raccogli lenzuola e piumone a bordo letto, ti lavi i denti, pisci un’altra volta. Quando ti chiudi la porta di casa alle spalle, un giorno nuovo, uguale a quello che è appena trascorso, comincia.
La foschia sfilaccia Mirafiori Sud, e tu fai l’operaio.
Sei una persona perbene, secondo le definizioni convenzionali. Hai sempre lavorato, spaccandoti la spina dorsale almeno otto ore al giorno; ovviamente ti sei sposato, ovviamente hai avuto due bambini, un cane (zoppo), un mutuo sulla casa e un’assicurazione sulla vita. Sei sempre andato a messa, la domenica, e i tuoi figli hanno preso tutti i sacramenti, senza nemmeno pretendere un regalo, e di questo vai molto fiero.
Hai montato mobili Ikea, fatto biciclettate la domenica, sei affogato nei sette e trenta, nelle riunioni sindacali, nei seni di tua moglie, almeno finché il matrimonio è durato; ora lei e i bambini vivono in un appartamento che paghi quasi cinquecento euro al mese. È un posto grazioso, con un balcone affollato di gerbere; ci passi poche ore, giusto il tempo di prendere i bambini e portarli a fare un giro, a mangiare una pizza.
Hai sempre accomodato il tuo ritmo a quello collettivo, hai sempre pensato in modo discreto. Hai dato fiducia ai Presidenti e ai Papi, dato fiducia agli schemi e alle loro caselle: non hai dormito mai più di sette ore a notte, sei stato produttivo, onesto, dignitoso, normale, senza rincorrere nulla più del silenzio immoto, sereno, senza palpiti, in cui evaporava la tua casa una volta che tutti e quattro– tu, tua moglie, i tuoi figli – eravate sotto lo stesso tetto, al sicuro. Hai camminato sempre un passo dietro lo schiamazzo: non ti piacciono gli esibizionisti, le soubrette, i filosofi; non ti piace chi ha troppe opinioni, ed esercita costantemente il diritto di esprimerle.
Lo sai, che hai vissuto come si doveva vivere.
Lo stabilimento s’intravede dall’autobus: lotta nella nebbia, con l’edificio che sbuca dalla foschia, senza tracce di luce; tu lavori allo stampaggio delle lamiere.
Oggi è un giorno speciale. Gli altri, aggrappati al corrimano dell’autobus, come te, hanno visi agitati, dove il sonno sembra solo un’ombra lontana. Lo senti anche tu, che è un giorno diverso: mentre alzi bavero, – l’autista ha accostato, spalancando le porte, e l’aria è penetrata con tutto il suo ansimare gelido – vorresti essere già dentro, ai macchinari. Soprattutto per non pensare.
A cosa giocavate, da piccoli?
Quando pioveva, quando dalle finestre di casa una caligine densa sfigurava i numeri gialli degli autobus, decidevate per il facciamo che. Facciamo che farò il calciatore. O forse il paleontologo, o il medico, o meglio ancora, l’astronauta. Facciamo che sarò un avvocato pieno di soldi.
Ora Mirafiori t’inghiotte, nebbia alle spalle, e tu fai l’operaio.
Il facciamo che si è sgretolato da un pezzo. Il giorno speciale è, oggi, un giorno odioso: le prime ventiquattr’ore da lavoratore esasperato, prosciugato, ricattato. Sì, perché tu sei uno di quelli che ha votato per non chiudere. Sei uno di quelli che, con le scarpe pesanti e la nausea nella gola, hanno scelto un salario più basso, meno ferie e meno diritti, pur di continuare a portarsi a casa quei mille euro al mese. Ora alcuni ti guardano con aria di comprensione – sì, mi trascino la tua stessa colpa, amico -, mentre alcuni portano vergogna, negli occhi, e disprezzo. Li hai venduti, e lo sai. Me l’hanno fatto fare, vorresti dire loro, ma sei quasi sicuro che non capiranno. Facciamo che torniamo a essere tutti amici, facciamo che non successo niente. Dov’è la caligine di quei giorni? Dove sono tutti gli astronauti?
La giornata scorre veloce, indolente: lamiere su lamiere, stridore, occhiate, pausa pranzo di ciabatta con cotto, una pisciata in solitario, nel bagno dell’ala più deserta.
Finisce alla solita ora.
Al ritorno, guardi Torino disfarsi in diluvio rabbioso. Scendi un po’ dopo la tua solita fermata, hai voglia di bere qualcosa. Entri in un bar, la porta, alle tue spalle, si chiude con un tonfo, urtando il portaombrelli. Qualcuno sta fumando, un orologio – appeso sopra una foto incorniciata di Berlusconi e dei suoi quaranta denti – ticchetta contro il brusìo, scandendo un ritmo svogliato. Chiedi del the col latte, poi cambi idea, preferisci qualcosa di forte. Uno spruzzo d’anima nera, grazie. Bevi in fretta. La tua giacca è troppo lunga, gli occhi stazzonati: guardi qualcosa, oltre la vetrata del bar. Che cosa? Il sudario di nuvole che incombe? O il senzatetto che finge di avere le gambe storte, e poi corre verso un autobus che sbuca all’improvviso dall’angolo, sbracciandosi per non perderlo?
Trangugi l’ultimo sorso d’anima nera, lasci scivolare il bicchiere vuoto sul bancone. Ti giri e fissi la fotografia di quell’uomo. Sorride, come sempre. Quindici anni fa, non ci avresti scommesso una cicca, su di lui. Era bassino, l’aspetto finto; ti ricordava quell’animale dell’Albero Azzurro. Berlusconi. Scandisci il suo nome con la voce spezzata, tanto Torino non ti sente, tanto l’Italia tutta, non ti sente; sono troppo impegnati a correre dietro alle sottane di un gregge di ragazzine scollate. Mirafiori è senza colore, è scialbo, ordinario; dallo stabilimento, dopo una certa ora, non esce più nessuno: solo i custodi vi hanno conosciuto la notte, e per loro è sempre la stessa solitudine retribuita.
È inverno, feroce e umido, e tu prendi un altro autobus per tornare a casa. Mangi davanti a un quiz televisivo, dove uno dei concorrenti improvvisa un compiaciuto balletto in mezzo a tre paia di gambe nude femminili. Petto di pollo e insalata. Poi facciamo che si finisce. Facciamo che i piatti restano nel lavello, i grumi che galleggiano in un dito d’acqua, e che dopo lo spazzolino viene il pigiama, e una frettolosa telefonata ai bambini.
L’oscurità ha raccolto la pioggia, e i vetri non ticchettano. Mirafiori Sud non ha battiti, cede al sonno confuso di una notte sfinita, e tu sai che domani sarà come oggi, esattamente come oggi, sai che ti si cuoceranno gli occhi allo stampaggio lamiere e che, la sera, al bar, rivedrai la foto di Berlusconi e dei suoi quaranta denti. Forse berrai ancora, ma con più foga. Probabilmente urlerai il nome di Berlusconi e di tanti altri, così, tra un ingoio e l’altro, e non ci saranno problemi, il volume della televisione e di quattro paio di tette coprirà sempre i tuoi imbarazzanti singulti.
Ma intanto facciamo che tra otto ore tornerà la sirena elettrica delle sette e quarantacinque.
Intanto facciamo che ti addormenti, come gli altri, nel silenzio più terrificante.
[1] Titolo di una raccolta di poesie di Leonard Cohen, “L’energia degli schiavi”, ed. italiana Minimum Fax, Roma 2003.