… sulla strada dei criminali deve camminare un uomo che non è un criminale, che non è un tarato, che non è un vigliacco. Nel poliziesco realistico quest’uomo è il detective. E’ l’eroe, è tutto. Un uomo completo, un uomo comune, eppure un uomo come se ne incontrano pochi. Dev’essere, per usare un’espressione un poco abusata, un uomo d’onore.
Raymond Chandler, The Atlantic Monthly (1944).
Ogni volta che mi concedo il piacere di (ri)leggere un’avventura di Marco Luciani, il burbero commissario della polizia di Genova nato dalla penna dello scrittore e giornalista Claudio Paglieri, la mente corre immancabilmente a queste parole.
Non perché, chiariamolo subito, vi siano particolari punti di contatto fra il buon commissario e Philip Marlowe – il commissario Luciani, bontà sua ma soprattutto del suo “papà” letterario, non somiglia a nessun altro investigatore di carta in circolazione – bensì in ragione del fatto che, pur tenendosi alla larga dagli stereotipi più sfruttati del genere poliziesco, Luciani incarna alla perfezione l’ideale di detective così come lo teorizzava Raymond Chandler (uno che in materia la sapeva lunga, avendo messo nero su bianco, per usare le parole di Oreste Del Buono, “il meno probabile realisticamente, anche se il più convincente artisticamente, dei grandi detectives”): un uomo “comune” fatto di pregi, difetti, debolezze; eppure un uomo “come se ne incontrano pochi”: centonovantasette centimetri di onesta severità, senso profondo della giustizia e puro talento investigativo. Un donchisciotte moderno e certamente, senz’alcuna retorica, un uomo d’onore. Anoressico, per giunta (il che già di per sé costituisce un merito… non pare anche a voi che la schiera dei detective gourmet che smontano alibi a prova di bomba tra un risotto alla menta e un budino d’uva fragola abbia fatto il suo tempo?), allergico al lusso e agli sprechi.
Ecco qua: voglio parlare di un romanzo e finisco coll’imbastire una dichiarazione d’amore in piena regola.
Marco Luciani è un personaggio che colpisce e tiene inchiodati alla pagina; che si fa voler bene nonostante il – o forse proprio grazie al – suo carattere spigoloso.
Ne “L’enigma di Leonardo” è alla sua quarta indagine: dopo “la lunga notte di Ventotene, la notte in cui un uomo affidato alla sua custodia aveva trovato una morte orribile” (la vicenda, che ruota intorno al ritrovamento di una statua di Lisippo, è narrata ne “La cacciatrice di teste”), il commissario è di nuovo alle prese con la scomparsa di un’opera d’arte d’inestimabile valore: il disegno a sanguigna di una testa di profilo d’uomo che potrebbe portare la firma di Leonardo Da Vinci. Un ritratto bellissimo e assai particolare, dal fascino misterioso:
“Il quadretto raffigurava un uomo con la barba ma era come se ritraesse in realtà chi lo guardava: quell’uomo era tutti gli uomini, era la nostra parte più profonda, la nostra coscienza che ci osserva dallo specchio e di fronte alla quale siamo nudi e senza difese”. E’ preso di profilo, “e t’inganna; tu credi di poterlo guardare senza essere visto, in realtà è lui che ti legge dentro”. Quel che è certo è che chi lo tocca trova la morte, poiché la vera bellezza si lascia afferrare solo da chi ne è degno, da chi ha il cuore puro. Dagli uomini d’onore, per usare un’espressione un poco abusata.
Giallo raffinato e appassionante, “L’enigma di Leonardo” rivisita con gusto e una buona dose d’ironia gli elementi tipici del romanzo poliziesco tradizionale regalandoci innanzitutto un buon romanzo. Chi avesse già avuto la fortuna di immergersi nelle prime tre avventure – professionali, ma anche personali e perfino intime – del commissario Luciani ritroverà con piacere Donna Patrizia e la zia Rina, il tormentato ispettore Calabrò (protagonista, qui, di una deliziosa indagine parallela condotta nientemeno che dalla sua signora), il saggio e provvidenziale agente scelto Iannece che ha un proverbio (opportunamente riveduto e corretto) per ogni occasione. Non è necessario aver letto quelli che potremmo definire i primi tre capitoli della saga lucianiana, tuttavia, per godere appieno del romanzo in commento. Ogni romanzo fa storia a sé e cominciare dalla fine non guasterà affatto il piacere di una lettura à rebours. Sul fronte delle novità, “L’enigma di Leonardo” propone un Marco Luciani nelle insolite vesti di padre single del piccolo Alessandro: pochi mesi di vita e una volontà di ferro che sconvolgeranno, nel bene e nel male, la vita e le abitudini del
commissario.
Solo un paio di cenni in merito all’ambientazione per evitare, da ligure e genovese D.O.C., il rischio dell’eccessiva partigianeria: la vicenda si svolge infatti tra i carruggi di una Genova carica di fascino e profumi ed il quieto, elegantissimo lungomare di Camogli. Lo scenario perfetto anche laddove si consideri che il ritratto – ma dovremmo dire piuttosto l’autoritratto – al centro dell’inchiesta esiste davvero ed è conservato proprio nel caveau di una banca genovese (tutti i dettagli e le informazioni sul sito www.leonardoritrovato.com).
Difficile stabilire se Claudio Paglieri sia “il miglior giallista italiano” (così lo ha definito il noto giornalista e scrittore Alzo Cazzullo): non amo le classifiche e i giudizi dal sapore definitivo.
Quel che sento di poter affermare in assoluta tranquillità è che, con il ciclo dedicato al commissario Luciani, Paglieri si è ritagliato un posto di rilievo nel panorama letterario poliziesco e nel cuore di tanti lettori.
Compreso il mio.
Simona Tassara