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L’epica della vendetta: intervista a Giulio Petroni

Creato il 14 dicembre 2013 da Fascinationcinema

Tralasciando il suo excursus da giornalista, documentarista (che lo porterà a vincere il festival di Venezia) e aiuto regista (tra l’altro per Rossellini e de Santis) e soffermandoci esclusivamente sulla sua attività da regista cinematografico, si possono identificare quattro fasi distinte nella carriera di Giulio Petroni. La prima è quella della commedia, che inizia ufficialmente nel ’59 con La cento chilometri, la cui sceneggiatura porta la firma, oltre che di Petroni stesso, anche della coppia Pasquale Festa Campanile- Massimo Franciosa.

“Con Massimo si è venuto a creare un legame duraturo nel tempo. Molti anni più tardi, tramite la mia casa editrice Dalia, pubblicai anche un suo romanzo Un impossibile amore con la signora di Nohant. Abbiamo anche scritto una sceneggiatura insieme, mai realizzata tratta da un mio romanzo (La strega di Colombraro). Con Pasqualino il rapporto era più goliardico, amava gli scherzi. La Cento Chilometri non è certo il film che avrei scelto se ne avessi avuto la possibilità. Comunque mi divertii a girarlo.” Il film, se pur datato, sembra aver acquisito negli anni una valenza di documento storico anche grazie a un cast popolato da volti noti dell’epoca, sia del grande schermo che della televisione: Fred Buscaglione, Massimo Girotti, Carlo Giuffrè,Gigi Reder, Riccardo Garrone, Marisa Merlini, Mario Carotenuto (che apparirà altre due volte nelle pellicole di Petroni, anche accanto al fratello Memmo).

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Dopo il successo di questo debutto, in parte anche dovuto ad un intervento censorio molto discusso intorno alle gambe tornite di una giovanissima Paola Pitagora, Petroni gira cronologicamente I Piaceri dello scapolo, I soliti rapinatori a Milano e Una domenica d’estate. Quest’ultima pellicola del ‘66, che vanta la presenza del duo Tognazzi-Vianello e le musiche di Trovajoli, segna la fine della sua prima fase. “Erano film che facevo, come si può dire, “artigianalmente”. Comunque in maniera distaccata. I Piaceri… a distanza di tempo mi sembra il migliore dei quattro. Degli altri, le intenzioni sono chiare fin dai titoli in cui echeggia la presenza di pellicole di successo fatte in precedenza. Ero ancora in una fase di apprendimento”. Nel ‘67 inizia il secondo e più importante capitolo: quello dei western. Capitolo che donerà notorietà e prestigio alla carriera di Petroni, unendo indissolubilmente il suo nome al genere.

La filmografia western di Petroni è composta da cinque titoli: Da uomo a uomo (1967), …e per tetto un cielo di stelle (1968), Tepepa (1969), La notte dei serpenti (1970) e La vita a volte è molto dura vero Provvidenza? (1972). Su Death rides a horse, titolo internazionale del suo primo western, è difficile trovare cose nuove da raccontare: omaggiato a più riprese da Tarantino, facendo proprio da struttura narrativa nel caso dei due Kill Bill e tra i nostri western più fruttuosi al box office, specie negli USA, dove venne acquistato dalla United Artists. Lee Van Cleef in questo film ci regala una delle sue migliori interpretazioni, affiancato da un cast ricco di volti noti: John Philip Law, l’immenso Luigi Pistilli, José Torres, Mario Brega. Marca l’inizio del sodalizio di Petroni con Morricone (collaborazione che si ripeterà altre cinque volte) che per l’occasione compone una colonna nervosa e perfettamente tetra per quello che è ritenuto dai più come il miglior western italiano sulla vendetta, ormai un vero e proprio classico.

Titolo che spetta di diritto anche a Tepepa (1968) che, insieme al Quien sabe? (1966) di Damiani, rimane l’esempio più puro del filone western-terzomondista, detto anche western rivoluzionario. A incarnare il ruolo del peones rivoluzionario troviamo Tomas Milian accanto al temuto Orson Welles (nel suo unico western) e al caratterista John Steiner, che debutta in Italia grazie proprio a questo film. Nel mezzo Petroni dirigerà una pellicola insolita, …e per tetto un cielo di stelle (1968), con Giuliano Gemma e Mario Adorf. Un western agrodolce che anticipa la dimensione della coppia che farà la fortuna prima dei film di Giuseppe Colizzi e poi soprattutto di quelli di Barboni, ma che al contempo è caratterizzato da improvvisi sprazzi di violenza, come l’iniziale assalto alla diligenza, che donano al film un alone di malinconia. Dopo il fortunato trittico Petroni dirige quello che diventerà il suo western più oscuro e violento. Feroce, teso, La notte dei serpenti sembra più un horror gotico che altro. Con Luke Askew, compare storico di Dennis Hopper (che molti ricorderanno in Nick mano fredda) e di nuovo Luigi Pistilli, Petroni lo ha sempre ritenuto un’opera minore, arrivando addirittura a non parlarne. Il film però negli anni ha trovato un ricco seguito, Carlos Aguilar, ad esempio, lo ritiene uno dei suoi western preferiti, paragonandolo nell’epicità della redenzione a Lord Jim. A concludere il ciclo troviamo La vita a volte è molto dura vero Provvidenza?. Con Milian e Greg Palmer (ma nel cast troviamo molteplici volti noti da Janet Agren a Gabriella Giorgelli passando per Paul Muller e Mike Bongiorno) e baciato da un successo clamoroso, Provvidenza anticipa western grotteschi e sopra le righe come Il Bianco, il Giallo, il Nero (1975) di Corbucci e Cipolla Colt (1975) di Castellari, rimanendo imbattuto però nel saper mantenere un equilibrio tra gag e storia.

“Il western è un genere moribondo”. Fu cosi che Petroni, intervistato da un quotidiano nel ’71, periodo in cui il western andava ancora bene, faceva il punto della situazione. I motivi che però lo hanno portato ad abbandonare il genere sono tanti, in primis, il bisogno di dedicarsi ad altro e facendolo di trovare un’indipendenza produttiva. Interessante come nonostante i suoi western sono cosi diversi l’uno dall’altro ci sia una compattezza tematica molto forte: la figura della coppia, la vendetta e l’innocenza rubata. Interessante in questo senso il ruolo dei bambini. Pensiamo alla sequenza iniziale di Da uomo a uomo, in cui John Philip Law bambino assiste al crudele sterminio della sua famiglia o a La notte dei serpenti, in cui Askew vive nel senso di colpa nell’aver ucciso suo figlio e poi ovviamente Tepepa in cui l’ultimo a macchiarsi le mani di sangue è proprio il piccolo Paquito. Persino Adorf e Palmer, forse, nei rispettivi film, altro non sono che anime infantili troppo cresciute per il loro contesto. La figura del bambino è sempre circondata o contaminata dalla violenza. Violenza che è parte integrante di un epopea personale e varia lunga cinque film…

Quella che segue è una raccolta di interviste realizzate tra il 2008/2009 in cui con difficoltà si è cercato di estrapolare il più possibile dal carattere difficile e scontroso di Petroni.

Allora, tu hai diretto esattamente cinque western. Hai iniziato negli anni d’oro del genere ma ti sei fermato relativamente presto. I western stavano andando ancora abbastanza bene…

Non solo andavano bene ma l’ultimo mio western andò benissimo al botteghino, ma arrivati a Provvidenza, per l’appunto l’ultimo che ho firmato, il genere si stavo avvilendo e inflazionando di troppi titoli spesso messi in piedi da produttori improvvisati e con attorucci presi chissà dove. Diciamo che il controllo qualità che c’era stato fino alla fine degli sessanta era venuto a mancare e le sale erano inondate di film veramente indegni.

L’industria cinematografica italiana con il suo solito modus operandi cannibalesco nei confronti dei generi.

Purtroppo è cosi e le cose non sono cambiate. Francamente , per quanto mi riguardava, era arrivato il momento di passare ad altro. Se avessi voluto avrei potuto continuare tranquillamente. Mi offrirono, per esempio, il seguito di Provvidenza, Ci risiamo vero Provvidenza? mi pare si chiamasse, ma quel genere di film lì, cosi assurdo, sopra le righe lo puoi fare una volta ma poi basta insomma… Sai poi c’è un’altra cosa che vorrei aggiungere al riguardo e cioè che io, al contrario di altri miei colleghi attivi in quel periodo, non è che avessi chissà qual è amore per il genere. Quindi quando vidi che il western stava morendo, pensai che anche per me fosse giunta l’ora per passare ad un cinema diverso, più personale…

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Leone realizza il suo primo western nel  ’64. Qual era il tuo rapporto con il genere prima di arrivare a Da uomo a uomo?

Gli unici western che ho amato sono quelli  americani. Come ha risposto Orson Welles quando gli fu chiesto quali erano i suoi maestri: John Ford, John Ford, John Ford. “Ombre Rosse” ad esempio è uno di quelli che ho visto di più. Ma anche Il massacro di Fort Apache, Sentieri selvaggi e poi Viva Zapata! di Kazan. Insomma i classici. Poi sai come ho spesso detto, io non sono mai stato un cinefilo. Può sembrare assurdo ma i miei interessi più grandi sono sempre stati altri. Io sono, come mi hanno spesso definito, un artigiano del cinema italiano.

Come ti ho sempre detto, i tuoi film mi ricordano più Hawks che Ford e forse anche Siegel nell’asciuttezza e l’immediatezza della messa in scena, come ne La notte dei serpenti.

Forse hai ragione… Di Hawks ho visto di meno ma senza dubbio è stato un grande regista. Un dollaro d’onore è un capolavoro. I film di Leone li ho visti anche con un certo coinvolgimento ma di tutti quei prodotti che sono venuti dopo in Italia pochi si possono realmente salvare. Leone era un vero cultore, un esperto del western. Io non posso definirmi tale. Detto ciò, credo comunque di essere riuscito ad entrare in sintonia con il genere. La maggior parte dei registucoli che si sono cimentati hanno partorito solo prodotti grossolani, veramente indegni. Basti vedere il Requiscant di Lizzani, regista che non sa neanche fare lo spelling di western.

Si è spesso parlato di similitudini tra Da uomo a uomo e Notte senza fine di Raul Walsh.

Si, lo so.Io ripeto sempre la stessa cosa. Io il film di Walsh non l’ho neanche visto anche perché la sceneggiatura di Da uomo a uomo è nata in maniera molto spontanea con tanti elementi che mano a mano si sono andati ad incastrare insieme e molto di questo è avvenuto sul set.

Nel Dizionario del western italiano, Marco Giusti sostiene che alla sceneggiatura collaborò Antonio Margheriti. Che dici in merito?

Che devo dire, che non è vero. Gli unici responsabili della sceneggiatura di quel film sono stati il sottoscritto e Luciano Vincenzoni.

Il rapporto con Vincenzoni com’era?

Vincenzoni credo che considerasse il western un genere non meritevole del suo intelletto. Comunque il film ha giovato dal suo contributo.

Lee Van Cleef  chi l’ha scelto?

Quando Alfonso Sansone e Enrico Chroscicki vennero da me con l’idea di fare un western, avevano già in mente il suo nome. Lui era un grande cavallerizzo ma molto arrugginito. Comunque un professionista di altissimo livello. Perché c’è da dire che tra gli innumerevoli meriti di Leone, c’è stato anche quello di riportare alla luce vecchi attori, vecchi caratteristi ormai sulla via del declino. Van Cleef aveva ancora qualche problema con l’alcool.Ricordo ad esempio quando a capodanno venne il momento di brindare, lui lo fecce con il bicchiere pieno di coca-cola.

Questo film segna l’inizio del tuo sodalizio con Ennio Morricone.

Sì, un rapporto duraturo nel tempo. Ma vorrei aprire una parentesi, ecco io con Morricone ho fatto ben sei film eppure sistematicamente i miei film non vengono mai citati. Mai. Quando ha vinto due anni fa,  meritatamente, nemmeno ci sarebbe il bisogno di dirlo, l’Oscar alla carriera, Walter Veltroni ha fatto un eloquente discorso in cui, tra le altre cose, citava tutti i registi con cui Ennio ha lavorato. Il mio nome o i titoli dei miei film neanche a parlarne. Sospetto, no?

Death rides a horse negli Stati Uniti è a tutti gli effetti un classico, soprattutto dopo le dichiarazioni di Tarantino.

Guarda, non mi stupisce che questi miei western siano rimasti, insomma che abbiano superato la prova del tempo, perché anche da parte mia c’è stato un maggior coinvolgimento, parlo emotivo. Le commedie che avevo diretto precedentemente, pur avendole approcciate con professionalità, insomma,il distacco con quei film era enorme. Mi davano la possibilità di lavorare, perfezionarmi nel mestiere e di farmi conoscere. I western, anche se da parte di molti, nei confronti del genere, c’era un certo snobismo… mi davano modo di fare qualcosa di più importante. L’aspetto del west che più mi intrigava era l’avventura, la natura selvaggia. L’idea di fare dei film d’avventura come certi romanzi che avevo amato da ragazzo mi attirava. Poi Da uomo a uomo si presentava subito come un progetto di una certa entità. Sansone e  Chroshiski avevano ottimi rapporti con produzioni estere, sapevo già che sarebbe stato distribuito dalla United Artists e in Italia dalla Titanus. Tarantino ha spesso e volentieri  parlato molto bene di me…

Ha fatto anche di più, in Kill Bill ci sono espliciti omaggi al film.

L’inizio, giusto l’inizio per la violenza, ma per il resto…mah. Le musiche di Morricone anche, ma devo dire che il film mi ha un po’ annoiato. C’è troppo di tutto, un minestrone fumettistico.

Tornando a quello che dicevi riguardo al tuo atteggiamento nei confronti del cinema, consentimi di dire che ci trovo una contraddizione. Parli sempre di distacco ma i tuoi western sono gremiti di temi ricorrenti, troppi per essere casuali.

Io cercavo di inserire nei miei western certi elementi dei romanzi d’avventura che leggevo da ragazzo. Pensandoci bene forse mi viene da dire che i miei western erano western quanto erano film d’avventura. Del resto tutti i miei western parlano di viaggi e ostacoli. Tutti i miei personaggi sono in cerca di qualcosa, qualcosa che li porta a viaggiare e vagare….

Poi la coppia, hai sempre trattato di coppie. Milian-Steiner, Milian-Palmer, Gemma-Adorf e cosi via. Amici, nemici che si incontrano si perdono, si scontrano…

L’amicizia, l’incontro, la competizione virile…sono componenti tipiche del cinema western.

Mi incuriosisce un elemento però di cui non abbiamo mai parlato: la presenza dei bambini. Releghi alla figura del bambino o il ruolo di agnello sacrificale o di spietato aguzzino. I bambini che siano vittime o carnefici sono sempre presenze “contaminate” dalla società e la violenza che la circonda.

Si, è vero…(lunga pausa) è vero. Bhè,poi  i bambini sono stati al centro di tanti documentari da me realizzati negli anni cinquanta. Quella dell’innocenza perduta è un tema ricorrente sia nel mio cinema che nei miei libri, forse dovuta al fatto che io sono stato costretto a crescere molto presto, a bruciare tante tappe… Questo è un discorso complesso che non so quanto ho voglia di scandagliare…

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A proposito di inconscio, tu sembri avere un odio particolare per La notte dei serpenti. Odio sospetto e comunque ingiustificato, perché anche se non può competere con Tepepa o Da uomo a uomo ha un nutrito seguito.

Mah, odio no. Sicuramente tra i miei western è quello che amo di meno.

Ma ne parli sempre poco volentieri…

Fu un film che mi impegnò molto.

Ah ma tu mi dicesti che l’avevi fatto svogliatamente.

Ah si? No, diciamo forse l’ho fatto con il pilota automatico. Forse mi riferivo alla fase di scrittura. Quello è stato un film in cui il apporto alla sceneggiatura fu minima. Probabilmente se tornassi indietro mi impunterei nel cambiare quello che non mi convinceva della sceneggiatura. All’epoca lasciai andare così e fu un errore…

Luke Askew è stata una scelta singolare.

Askew lo scelsi io. La produzione mi mandò a Los Angeles con lo scopo di tornare con una scoperta. Io tramite una grande agenzia di attori nel cuore di Hollywood scelsi lui. Aveva avuto un ruolo in Easy rider. Lo scelsi principalmente perché lo trovavo credibile in un contesto western ma al contempo aveva una faccia attuale, moderna. Non me ne pentii, come tutti gli attori americani era puntuale e preciso. Lo erano tutti, al di là delle loro capacità artistiche.

Bello il titolo, di chi è?

Mio. Non ricordo il titolo che aveva originariamente.

Tra l’altro un film con delle atmosfere gotiche molto forti, quasi horror. I personaggi sono mostruosi e il tutto sembra una sorta di  girone infernale.

Si, è senza dubbio il mio film più cinico. Anche in Tepepa in cui il finale è tragico e tutti muoiono, c’è comunque un alone di speranza e sopravvive un certo idealismo quando invece La notte dei serpenti è molto terreno e tutti sono peccatori che pensano solo a se stessi. Quello che cambierei senz’altro è il finale, troppo solare per quel film, probabilmente il protagonista, dopo essersi riscattato, doveva soccombere…

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Parliamo un attimo di La vita a volte è molto dura vero Provvidenza?

Cominciamo col dire che a me questo titolo non piaceva. Troppo lungo, pieno di punteggiatura. Ma i produttori insistevano e io poi ho lasciato perdere. Il nome Provvidenza nasce dalla moda che c’era in quel momento di dare ai personaggi dei nomi, diciamo, evangelici: Trinità, quelli dell’Ave Maria e così via…

Come erano i rapporti con Castellano e Pipolo?

Non c’è mai stato un rapporto con loro. Quello che posso dire è che quando lessi per la prima volta la loro sceneggiatura rimasi basito dalla bruttezza e dalla volgarità delle idee. C’era roba, gag, che non erano ne divertenti ne….solo avvilenti . Inaccettabile, semplicemente inaccettabile. Infatti cambiai moltissimo sul set. Un gran numero di situazioni, di trovate furono inventate lì per lì sul set, da parte mia con l’aiuto degli attori.

Di chi fu la scelta di infilarci dentro Mike Bongiorno?

Mia. Anzi fui molto ostacolato in questa mia decisione. “Ma che c’entra Bongiorno nel West?” mi dicevano. Io però puntai i piedi e l’ebbi vinta, perché in sceneggiatura era previsto che ci fosse una scena in cui per capire quali dei due tra Palmer e Milian, fosse il vero Provvidenza, gli veniva fatto una specie di quiz. Poi io andai a vedere il film al cinema, il Super Cinema di Roma e quando apparve questo personaggio interpretato da Bongiorno, la gente scoppiò a ridere. Io mi trovavo in piedi perché il cinema era stracolmo e diedi delle gomitate, non ricordo se a Colombo o Papi. Avevo ragione io.

Hai avuto modo di vedere il sequel? Che ne hai pensato?

Sì, lo vidi una volta. Bhè, lo trovai francamente brutto. Milian è lasciato allo sbando, cosa da evitare per qualsiasi attore ma nel caso suo è la cosa peggiore che possa succedere. Tomas Milian come ho già detto necessita di un regista che lo sappia contenere e dire stop quando supera un certo limite. Chi è che lo ha diretto?

Alberto de Martino.

No, un filmetto insipido che infatti fu un flop al contrario del primo, che fece bei soldi, per i produttori ben inteso. Io non mi sono mai arricchito con i miei film. Colpa mia.

Che vuoi dire?

Bhè, considerando che i miei film, o almeno gran parte di essi, hanno avuto un discreto successo, nel caso di un paio addirittura eclatante, ci si aspetterebbe insomma che non abitassi in un semi interrato. Ma io sono sempre stato poco furbo come uomo d’affari, non sono mai stato bravo a gestire soldi.

Tu guardavi i film dei tuoi colleghi?

No. L’hai letta l’intervista che mi ha fatto Alberto Pezzotta? Eh, il titolo di quell’intervista è “Io non sono mai stato cinefilo”. Ed è cosi, non lo sono mai stato. Ho grande rispetto per il cinema sia come mezzo di comunicazione che come espressione artistica ma la storia del cinema come argomento, non è che mi interessi molto…

Tu come sei entrato nella storia cinema italiano come regista western. Come ti fa sentire questo?

Bene anche se io penso che avrei potuto fare di più. Film diversi, più ambiziosi ma non mi è stata data l’occasione…di questo mi dispiace…sono sempre dovuto scendere a dei compromessi ingiusti.

Tu ti reputi in parte responsabile di questa emarginazione?

L’unica cosa che posso dire è che io mi sono rifiutato di rinunciare alle mie idee ed abbracciare ideologie politiche che non mi appartenevano.

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Parliamo di …e per tetto un cielo di stelle.

Su quel film mi sono trovato molto bene. Guarda, io tra le qualità che, diciamo, sento di aver avuto come regista, c’è quella di aver quasi sempre creato buoni legami sul set. Con gli attori, si instauravano rapporti basati sulla fiducia. Ho sempre avuto rispetto per il lavoro dell’attore. La chiave diciamo è cogliere, capire di che cosa ha bisogno l’attore. Colgo l’occasione al riguardo per raccontare un aneddoto che ha come protagonista uno dei più grandi bluff del cinema italiano, Gillo Pontecorvo. Io conoscevo alcune persone che lavoravano sul set di Queimada e una volta andai anche sul set.  Insomma Gillo faceva ripetere le scena a Brando decine di volte. Una volta in particolare arrivò a 40 e passa ciak. Brando si alzò e disse: “Gillo, non ti preoccupare, continua pure. Io torno in albergo.”  Tornando al mio film, è stata una bella esperienza. Con Gemma c’era grande sintonia.

Ma se mi posso permettere, l’anima del film è Mario Adorf.

Questo è indubbio, anche se con delle differenze, quello di Gemma era un personaggio che aveva già interpretato in altri film. Adorf era sicuramente meno alla mano, più solitario, ma anche con lui nessun problema.

È interessante anche il duo femminile. Konopka e Menard. Furono scelte tue?

Magda Konopka sì, la scelsi io. Poi con me ha fatto anche La notte dei serpenti. Quanto a Julie Menard onestamente non ricordo più, credo che fosse una scelta di Gianni Lucari.

Come è nata l’idea di questo miscuglio agro-dolce?

Ma guarda, il genere, arrivati a questo punto, si era inflazionato di tanti filmetti di poco conto, improvvisati, quindi capimmo che bisognava un attimo cambiare registro. Siamo arrivati prima di Trinità, con l’idea della coppia, braccio-mente.

Per molto tempo prima di iniziare la tua carriera di regista hai diretto molteplici documentari. Quanto di quell’esperienza si è insinuata nei tuoi western?

L’attenzione per i volti, le mani cioè quei dettagli che quando giri un documentario devi saper cogliere immediatamente e aggiungono un ulteriore strato di verità a quello che si sta descrivendo.

Sia Tepepa ma soprattutto Da uomo a uomo e La notte dei serpenti sono film molto violenti ma stranamente la violenza all’interno di e per tetto un cielo di stelle colpisce di più proprio perché inaspettata…

Mi hanno di recente mandato il DVD giapponese del film e l’altro giorno l’ho rivisto. L’unico mio film che ho rivisto di recente ed in effetti rivedendolo mi sono reso conto di quanto non segua una linea precisa, nel senso che cambia registro anche piuttosto repentinamente pur mantenendo una certa fluidità, una armonia. Quindi capisco cosa vuoi dire…ma me ne rendo conto solo ora.

Solinas ha spesso dichiarato che il suo contributo è stato minimo e che in realtà la sceneggiatura di Tepepa è di Ivan della Mea.

Questa è una balla colossale. Io avrò incontrato questo signor della Mea si e no due volte di sfuggita, quasi per sbaglio oserei dire. La sceneggiatura è di Solinas. Punto.

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In certe versioni, lo sai, il finale è stato modificato eliminando l’immagine di Tepepa che cavalca con la musica di Morricone in sottofondo.

Allora il finale sì ,in effetti, ha subito dei cambiamenti. Io in un primo tempo avevo tolto quella allegoria, diciamo così, finale perché  Solinas non l’aveva gradita, perchè non scritta da lui semplicemente. Poi rendendomi conto che in effetti ci stava benissimo, ce l’ho rimessa. Tu ti riferisci a, diciamo, i tagli di censura. Sì, poi venni a sapere che per la distribuzione americana la Paramount aveva levato l’immagine di Tepepa che cavalca. Questo quasi sicuramente è legato all’ambiguità del personaggio. All’epoca  non era visto di buon grado che un personaggio che si era macchiato di crimini, anche efferati,  fosse però trattato come un eroe, fosse mitizzato. Del film esistono due versioni, quella vera, uscita non troppo tempo fa in DVD, di circa 130 minuti e poi una versione molto più corta voluta da Alfredo Cuomo.

Come mai?

Sosteneva, non si sa bene su la base di cosa, che il film fosse troppo lungo e feci dei tagli non solo facendo danni alla narrazione ma anche massacrando la colonna sonora di Morricone.

Orson Welles?

Guarda, Cuomo riuscì ad averlo, a contattarlo tramite agenzie. Io non potevo credere che stavo per dirigere Orson Welles e lo informai del fatto che ero un po’ intimidito all’idea di dirigere il regista di Quarto potere ma lui mi rispose “Don’t be silly”. Arrivato a Tepepa, non ero più tanto giovane e questo fu motivo di sollievo per lui che non sopportava i nuovi virgulti. Neanche a dirlo, lo aveva preceduto una reputazione di uomo intrattabile, burbero e in effetti lo era, ma non con me. Welles ed io abbiamo passato più sere a conversare, discutere davanti a una bottiglia di whiskey. A lui piaceva molto bere. Mi parlava molto di Rita Hayworth, gli deve essere rimasta proprio sul gozzo. Non interferì, mai con il mio lavoro di regista, solo un consiglio una volta  e aveva perfettamente ragione. Ahimè Tomas Milian è stato il target di molte sue angherie. Lo chiamava “il piccolo cubano”.

Che mi puoi dire di Tomas Milian?

Un bravo attore talvolta però difficile da contenere. Era un vulcano di idee e perciò aveva la tendenza a strafare, poi non ne parliamo, su Provvidenza veniva da me con delle proposte strampalate e io lo dovevo frenare. “No, questo no!” Sua, in quel film, era l’idea dello yoga ad esempio. Ma  come ho detto, andava frenato. Sembra strano a dirsi, ma ho sempre avuto l’impressione che fosse piuttosto insicuro. Insicuro rispetto alla sua presenza fisica, aspetto fisico. Un personaggio complicato Milian, più di quanto si possa immaginare.

Tu l’hai mai visto Quien sabe? di Damiani?

Sì, ma lo ricordo poco. Le analogie tra il mio film e quello di Damiani derivano dallo sceneggiatore. A Solinas capitava spesso di scrivere lo stesso film. Questo è palese guardando alcuni dei film scritti da lui.

Tipo Queimada, altro film con una struttura analoga?

Ah poi se parliamo di Pontecorvo stiamo freschi, uno dei più grandi bluff del nostro cinema. Un fenomeno costruito nel sedi di partito. Ti voglio leggere una cosa. (Si alza dal divano e prende da uno scaffale una copia del suo pamphlet Le ceneri del cinema italiano.) Guardate cosa ha scritto Kundera: “Chi pensa che i regimi comunisti dell’Europa Centrale siano opera  esclusivamente di criminali si fa sfuggire una verità fondamentale: i regimi criminali non furono fondati da criminali ma da entusiasti convinti aver scoperto l’unica strada per il paradiso. Essi difesero con coraggio quella strada, giustiziando per questo molte persone. In seguito fu chiaro che il paradiso non esisteva e che quindi gli entusiasti erano assassini.” Erano diversi i comunisti italiani da quelli dei paesi dell’est, meno entusiasti? No forse di più. Ricordate L’Unità listata a lutto per la morte di Stalin? È morto il nostro padre, la nostra guida infallibile, luce dei nostri occhi, scintilla delle nostre menti, fede dei nostri cuori.Dimostrazione ineccepibile  di quanto sopra il fatto che il fratello di Gillo, il fisico Bruno Pontecorvo, proprio a causa di questo “entusiasmo”, tradì non soltanto la sua patria naturale, l’Italia, ma anche la sua patria adottiva, l’Inghilterra, che già aveva concesso la nazionalità, per fuggire nell’Unione Sovietica e mettere a servizio di quel regime oppressivo le sue capacità e le sue conoscenze scientifiche. Non è caso d’infierire sulla memoria di quest’uomo la cui scelta dissennata è già stata ampiamente punita dalla storia. Ha finito i suoi giorni testimone attonito del crollo delle ideologie in cui aveva ciecamente creduto. Quei nomi di leaders comunisti  italiani, signora Bignardi, di cui lei scrive con accenti adoranti, sarà bene cancellarli dalla memoria. L’autrice di questa esegesi sull’opera di Gillo Pontecorvo insiste sugli “strepitosi successi” anche commerciali dei suoi film, fino a dire che Ogro “non fece perdere i soldi alla produzione”, mentre non recuperò nemmeno i soldi delle copie, come si dice in gergo.  Anche i tre-quattro cortometraggi di Pontecorvo ricevettero secondo la Bignardi ambiti “premi” governativi. In realtà, quelli che venivano chiamati premi non erano che contributi dello Stato che permettevano ad uno stuolo di documentaristi di vivacchiare. Io stesso ho campato per anni con quel lavoro e di quei documentari tutti premiati, ne ho fatti a dozzine e dozzine in giro per l’Italia e in Egitto, in Marocco, in Irlanda, nelle Isole Aran arrivando a vincere premi al festival di Edimburgo e al festival di Venezia. Massimo Ghirelli scrive: “È un periodo in cui Pontecorvo lavora anche nella preparazione di documentari di carattere politico, soprattutto attualità cinematografiche per l’archivio del partito comunista. Suo collaboratore abituale in questo settore è Giulio Petroni.”  E Irene Bignardi a proposito dell’occupazione da parte dei minatori di Ca’Bernardi nelle Marche, scrive: Gillo convinse il suo operatore Giulio Petroni a scavalcare il muretto ecc..Il risultato fu sette ore di guardina sia per Gillo che per il povero Petroni. Sono a grato a Irene Bignardi per il “povero Petroni”, dal quale traspare qualche benevolenza nei miei riguardi, facendomi apparire come uno sprovveduto travolto dall’impeto e dalla passione di Gillo. Vorrei chiarire che il “povero Petroni” era lo stesso che l’8 Settembre del’43, giorno in cui suo fratello, ufficiale di marina trovava la morte sulla corazzata Roma, affondata da aerei tedeschi mentre faceva rotta verso la base navale inglese de La Valletta, fuggì da Roma per sottrarsi alla caccia provocata dal rigurgito fascista, raggiunse Napoli e li partecipò all’insurrezione popolare contro le retroguardie naziste in fuga. Lo stesso la cui moglie dell’epoca, rinchiusa nel carcere di Regina Coeli, evitò per un soffio la deportazione in un campo di sterminio grazie al tempestivo intervento degli americani. Lo stesso che paracadutato in Piemonte, combatte fino alla fine della guerra con i partigiani delle brigate Garibaldi. Lo stesso che è medaglia d’argento alla resistenza. Lo stesso che, a guerra finita, emigrato nell’isola di Ceylon, divenne il fondatore e direttore per quattro anni del dipartimento cinematografico di quel paese. Il “povero Petroni” sapeva quello che faceva, come più tardi scopri con chiarezza che la parte politica in cui militava era la parte sbagliata.” Scusa ho letto più di quanto dovevo…

Eugenio Ercolani (Roma-2008/2009)

Per approfondire:

Da uomo a uomo e Kill Bill: analisi di un omaggio

Viva la revolucion! Il cinema di Giulio Petroni in foto

 

 

  

 

 

 

 

 

 

 


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