Magazine Diario personale

L'era del porco, di Gianluca Morozzi

Da Dallenebbiemantovane

Aveva la faccia del pazzo che a metà premiazione scatta in piedi urlando ignoranti, io sono il caos, dal mio vomito nasce l'universo, frattali, frattali, frattali.
(...)

E poi, un bel giorno, il vostro bassista decide che il rock è limitante. Che è troppo poco, il rock, per appagare la sua straripante creatività.
E vi lascia per andare a suonare funky. O fusion.
Che i bassisti sono un po' come gli idraulici, sono indispensabili e specializzati, lo sanno, e così vengono quando vogliono, se ne vanno quando vogliono, se la tirano. E almeno gli idraulici non si danno improvvisamente alla scultura perché avvitare tubi limita la loro creatività.
Oh, voi dite quello che volete: secondo me è un genio.

Erano anni che stavo alla larga dai libri cosiddetti giovanilistici, anche perché penso che una volta letti Werther e Holden e mettiamoci pure Frédéric Moreau, uno si è fatto le ossa, ha le categorie mentali per riconoscere della gioventù i disastri, le illusioni e le conseguenti secchiate d'acqua, e può serenamente procedere oltre.
Oltre nel senso: quando cominci a vivere di giorno e sei costretto a constatare che il tuo cervello ha cominciato a funzionare meglio di giorno che di notte, e ancora meglio da sobrio, insomma ti sei, con grande soddisfazione altrui, "integrato".

Magari ti fai fregare dall'esordio di un Brizzi o di un Culicchia, ma di solito lo fai per compiacere qualcun altro (e dagli) o per sapere di cosa parlare con il/i suddetto/i, quindi poco conta.

Invece il Morozzi è altra cosa.
Si capisce, leggendolo, che potrebbe scrivere di qualsiasi altra cosa, da qualsiasi altra prospettiva.
E lo dimostra il fatto che funziona anche all'età sbagliata.
Se stessi alle regole dello sceneggiatore Fabio Bonifacci, dovrei cassarlo immediatamente sia per il reato di non-storia (trama banale con il solito giovane artistoide, immaturo e irrisolto), sia per quello di iperstoria (troppe ramificazioni ed eccessivo ricorso a personaggi bizzarri).
Potrei elencare uno per uno gli errori che commette, dalle troppe ripetizioni, alle metafore banali, all'ossessione - nel parlato e nel vissuto dei personaggi - sempre per le stesse pratiche sessuali, echeppalle, e invece.
E invece il Morozzi ti prende all'amo dalla prima all'ultima pagina e, senza farti rotolare dal ridere, ti dà soddisfazioni rare e palpabili.

Sarà per il personaggio femminile inspiegabilmente psicopatico, che sembra fantascientifico e invece esiste, eccome se esiste, di tutti i sessi. E giustamente: non nel senso che sia giusta l'esistenza di esseri del genere, ma perché fa bene  Morozzi a non tentare nemmeno per sbaglio arrampicate sugli specchi della psichiatria per giustificarne le deviazioni.
Sarà per la triplice dannazione (la scrittura, la musica, l'amore) che fa andare avanti Lajos.
Sarà per il meraviglioso bassista inglese Billy, la sua meravigliosa saggezza e la geniale variatio sulla leggenda Paul is dead.
Sarà per il linguaggio concreto, sanguigno, bolognese verace, che rende riconoscibilissimo e unico ciascun personaggio.
Fatto sta che 'sto romanzo lo prendi in mano e non riesci più a mollarlo fino alla fine, e insomma dopo sei contento d'averlo letto.


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