Fregato. Per una storia da niente. Se lo sapessero i suoi soci in Svezia ne riderebbero per giorni. Contenuti e freddi, ma ne riderebbero molto, molto più di quanto sono abituati a fare.
Dietro le sbarre e il vetro rinforzato della cella di sicurezza, nell'aula dei processi per direttissima, in tarda mattinata c'è rimasto solo lui. Ancora solo e spaesato. Capelli biondi rasati. Felpa nera, con zip e cappuccio. Pantaloni larghi kaki. E due tatuaggi tribali ben vista e poco rassicuranti. Uno che spunta dal cappuccio, sul collo e sale dietro la nuca. L'altro sulla guancia sinistra. A pochi centimetri di distanza, sopra il labbro, sempre a sinistra , una cicatrice. Lo vedi e pensi al fratello di Lisbeth Salander. No, non al fratellastro quello insensibile al dolore fisico, il gigante con la malattia nervosa che gli impedisce di provare sofferenze. Magari un altro. Lui, là dietro, prova una sofferenza sola, e non è legato né all'astinenza dall'eroina, né alla sua detenzione. Un metro per due di spazio, una panca libera, e lui in piedi, dietro quell'acquario, a guardare la gente dall'altra parte. Un esemplare o due di ogni tipo. Un procuratore, un giudice, un avvocato d'ufficio, un traduttore, due testimoni, due agenti della polizia penitenziaria. Li detesta perché anche lui come Lisbeth "dannata" Salander, è un anarchico. Eppure in quel momento non prova rabbia. Solo un grande dispiacere, a malapena confortato dal fatto di essere ben separato da quei pesci, piccoli e insignificanti come lui. I suoi pensieri, almeno, sono fuori dalla cella, altrove.
Lui guarda quei pesci e loro lo guardano. Loro parlano e non capisce. La cosa gli dà terribilmente fastidio, perché – ne è certo e non può essere altrimenti – il soggetto era lui. Trentadue anni, da Tun, in Svezia. Duecentosette abitanti che rideranno di lui. E i suoi amici a Stoccolma uguale. Una vergogna, ma basta uscirne sani.
Si sente confuso dietro quel vetro. Lui guarda l'acquario. Fissa i pesci. Dopo una giornata in arresto gli effetti dell'astinenza da metadone si fanno sentire. La traduttrice gli parla, lui capisce, risponde ma biascica e lei non comprende. È preoccupato. Non controlla più i suoi impulsi. I bisogni si fanno più forti, non può stare calmo.
Due sere prima si era pettato qualcosa, forse eroina, forse metadone, non ricorda. Ci aveva bevuto sopra. Poi aveva iniziato a vagare per la città col suo bastardino di quindici mesi, unico compagno in questa città sconosciuta in cui si trova quasi per caso. Unico compagno fino a quel momento. Poi neanche più quello. L'ha perso. Solo, si è preoccupato ed è andato in paranoia. Forse qualcuno che voleva fargli compagnia c'era. Era inseguito, dice. Inseguito in strade buie che non conosce. Ma ora pensa fosse per la paranoia in cui era caduto. Lo inseguivano. Non si sa chi, alcuni. E lui, per salvarsi, si è arrampicato su un'impalcatura di un palazzo in ristrutturazione in un'elegante via della città. È arrivato al primo piano, forse al secondo, non ricorda. Ha sfondato la finestra e poi calma, tanta calma al punto che – una volta dentro - si è addormentato per terra sulla moquette.
È stato svegliato alle 5 o alle 6 del mattino dalle donne delle pulizie. L'hanno trovato a terra, ai piedi di un armadio. L'hanno guardato con quei tatuaggi tribali sul volto e sul collo. “Un criminale”, avranno pensato, e hanno chiamato la polizia. Così è stato arrestato. Niente di ché. Nessun tentativo di hackeraggio, niente truffe on-line o spionaggi. Nessun arma, neanche un pugno. Nessuna resistenza alle odiate forze dell'ordine, terminologia nazista che non sopporta. E ora lì, dietro il vetro e le sbarre dell'aula dei processi per direttissima è indagato per furto aggravato. Il procuratore lo dice al giudice. Lui, dalla cattedra, guarda l'imputato dietro al vetro. Ride. Anche il giudice ride, come riderranno i suoi soci e i suoi conoscenti. Lo svedese invece no. Ha un solo pensiero. Il suo cucciolo bastardino di 15 mesi. Ma forse lo rivedrà presto. Le testimoni dicono che la mattina era fuori dallo palazzo ad aspettarlo.
[Questo post fa riferimento a un episodio vero accaduto a Torino la notte tra mercoledì 23 febbraio 2011 e giovedì 24. L'udienza si è tenuta il 25 febbraio, due giorni dopo. Chiaramente ho taciuto il nome dell'imputato, ma tutti i fatti si basano sul suo racconto e quello dei testimoni]