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L’escursione #3 di Franz Krauspenhaar

Da Fabry2010

L’escursione #3 di Franz Krauspenhaar

La notte ci percuote,
il tamburo di latta
batte incessante disillusi rintocchi
di tempo – illudersi è sparire, fare
la fine d’ogni specie rara, bestie
da zoo di provincia che grattano
le zampe su piastrelle sporche.

E la passione dei lettori
ci fa tenerezza e calore,
sembrano in fuga nell’adolescenza.

Come noi, quando prendevamo nelle mani
Holden il Giovane. E appresso il Beckett
della trilogia. Capimmo leggendola
che si poteva scrivere d’assenza,
di grigi vasi non comunicanti, come
da un purgatorio fatto di sparuti
commedianti. Che sia stato romanziere
capitale, Beckett, lo sapremo ancor meglio
domani, quando tutto sarà stato tritato,
sfatto, bollito in confettura di pensiero
stanco, appeso a vaghe code di ruggini.

Quando le Caroline Invernizio dell’oggi
saranno state spazzate come merda
di cane. Quando le Mazzantini con
“l’anima sudata”, i Faletti coi versi
per canzoni estrogenati in gialletti,
quando Camilleri l’avrà finita di sentirsi
lo Sciascia della televisione, quando
tutti questi sopravvalutati pezzi da 90
gradi di bucato nel culo avranno chiuso
i battenti d’una fama immeritata,
come la fu quella di Sainte-Beuve,
e mille altri di cui a malapena ricordiamo
i nomi, i nomi, i nomi…

Quando le installazioni funebri di libri
inutili o dannosi verranno bruciati
dal profondo nazismo delle fiamme,
quando quest’arte degenerata perchè
spacciata per cultura, quando Coehlo
verrà sbranato da dieci coccodrilli
e inculato, prima, da venti scimpanzè…

E la colpa non è anche dei lettori,
spesso senza un briciolo d’intelligenza,
curiosità, spasso della vita?
L’intelligenza la si puo’ imparare, si puo’
crescere. L’ignoranza è l’unica malattia
mortale ch’è ampiamente curabile.
Ma quanti non vogliono morire?

Pessoa ha infestato ogni insegna.
Anche nei bar, Pessoa si presta
per un festone, una luminaria.
C’è dell’altro, ma chi lo vuol sapere?

Il mondo sterminato del Borges
spesso è una costellazione di noia,
senza vita. La grandezza instancabile
di un cervello che non manda raggi
al di fuori della scatola cranica.

Vado verso la fine dell’escursione.
Potrei farne un bel pellegrinaggio,
potenziarla fino al porto di tante nebbie,
fino al cuore d’una vecchiaia sui libri.

Se non ci fosse stato Dos Passos
e il suo Manhattan Transfer non avrei
capito gl’intrecci delle anime nel mondo,
il conto senza fine della vita.

E senza Henry Miller sarei stato
più solo, più arreso. Henry m’insegnò
a disobbedire con orgoglio e dolcezza,
a dare del piacere quello che esso è,
il modo d’essere dei, accoglienti
di noi stessi in grembi teneri, ciò
che è amore senza maiuscole prive
di senso. Via, via dal romanticismo.

Ma al fondo d’ogni strada, vicolo,
autostrada, viadotto, muro cieco
c’è Baudelaire. Non c’è che il tocco
della sua vita mortale, che la sua
febbre agli occhi, il disperato credersi
ciò che era, che sempre, sempre sarà.
La sua violenza, ch’è quella della natura
e d’ogni amore che venga da vene,
e sangue, e sperma e cieli d’ogni aria
si fa genio di vetta. Charles Baudelaire
ha inventato ciò che noi siamo
al profondo, ci ha dato gli strumenti
per finalmente perderci.
Persi, siamo. Ma in tutta la grandezza.

[ Fine. Foto: Baudelaire visto da Nadar.  L'escursione #1 L'escursione#2]



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