I miei cinque lettori sanno che io non faccio politica (o forse sarebbe più corretto scrivere che non ho frequentazioni partitiche, né indosso paraocchi ideologici, anche se in passato ho svolto attività politica e pur considerando che nella politica, in senso lato, siamo tutti, nel bene o nel male, volenti o nolenti, immersi e coinvolti).
Il mio post di oggi prende il titolo da una tesi di maturità (oggi si dice esame di stato) presentata dalla maturanda Erica Cortese, nell’anno scolastico 2009-2010 al Liceo Scientifico Statale “Lanfranconi” di Genova.
La tesi (in gergo scolastico “tesina”) è dedicata all’esodo che le popolazioni istriano-giuliano -dalmate decisero di affrontare dopo la firma del Trattato di Parigi del 1947 con cui l’Italia, sconfitta dalla temeraria e disastrosa seconda guerra mondiale voluta dal regime fascista e dalla ingorda ma miope dinastia sabauda, fu costretta a cedere alla Federazione Jugoslava dell’astro comunista nascente Maresciallo Tito Bosic, fu costretta a cedere gran parte della italianissima Istria e delle altrettanto italianissime città dalmate di Zara e Fiume.
Non è questa la sede adatta per affrontare colpe e responsabilità della vergognosa cessione, vissuta da quelle popolazioni come un vero e proprio tradimento da parte dell’amata patria; né intendo trattenermi sulle ragioni o sui torti subiti dagli Italiani e dagli Slavi; d’altronde quando c’è di mezzo la politica, tutto diventa confuso, fumoso, opinabile, possibile e lecito, anche le azioni più vergognose e indegne, perfino la stessa guerra.
Limitiamoci perciò alla cronaca dei fatti. Come è noto la cronaca, a distanza di anni, diventa storia.
Ecco, per me, la storia della seconda guerra mondiale si concludeva lì, dove i libri di storia la fermano, con quelle date che diventavano sacre per legge o per consuetudine, nel giorno della liberazione: quel 25 aprile 1945, ancora contestato e non condiviso da tutti (ma può un popolo vero, gloriosamente autentico, come quello italiano, non avere neppure una data comune da festeggiare?).
Eppure la cronaca dei mesi successivi a quel, comunque fausto, 25 aprile 1945, narrano eventi diversi da quelli dell’iconografia ufficiale, fatta di bandiere al vento, di fiori offerti alle truppe alleate, dei baci delle nostre ragazze, affamate e desiderose di amore, ai soldatini americani, avvolti nel mito dei grandi divi di Holliwood, a lungo sognati e immaginati, per quel poco che la cortina del regime li aveva fatti filtrare, attraverso le poche riviste patinate e le scarse pellicole cinematografiche semiclandestine.
Erica Cortese, con la sua densa e illuminante tesina ci porta a Trieste e nell’Istria dove, tra il settembre del 1943 e il 15 giugno 1945, le milizie jugoslave del maresciallo Tito, esaltate dal sogno della grande federazione jugoslava che andava delineandosi, incattivite dagli eccessi fascisti e dagli ultimi graffi del drago teutonico, ormai ferito a morte; accecati dall’ideologia del drago comunista, il nuovo male assoluto, il mostro dalle sette teste, che era riuscito a sconfiggere il drago nazi-fascista (non certo meno malvagio e selvaggio del suo rivale comunista) e che ora si apprestava ad inglobare i frutti della sua vittoria, massacrarono migliaia di vittime innocenti, colpevoli soltanto di essere italiane, in un territorio destinato a divenire il “nuovo paradiso socialista in terra ” (Palmiro Togliatti dixit) dove non c’era posto per bambini, donne incinte, preti, finanzieri e italofoni vari, che non mostrassero di volersi prostrare ad adorare il nuovo feticcio con la stella rossa, stampata nell’incavo di una falce a croce col martello.
Ma il 15 giugno 1945 l’incubo finì solo per Trieste, Gorizia e Pola; quest’ultima visse un biennio di speranza, sino al 10 febbraio 1947, quando insieme a tutta l’Istria (escluse, come già detto Trieste, Gorizia e qualche altra porzione di territorio giuliano) passò definitivamente nelle mani della Federazione Jugoslava del Maresciallo Tito.
Ma tutto questo nei libri di storia non l’ho mai letto. Incominciai a intravvedere la verità negli anni settanta del secolo scorso, quando svolgevo il servizio militare di leva a Trieste.
In seguito le ripetute stragi, le follie utopistiche dei post-sessantottini, gli studi universitari, la silente ipocrisia dell’apparato politico italiano acquietarono, senza estinguerla però del tutto, quella sete di verità che prorompe tanto più fragorosa, quanto più a lungo è trattenuta e repressa.
Poi venne infatti la legge 30 marzo 2004 n. 92 con cui viene istituito il giorno del ricordo delle vittime delle foibe. Il giorno prescelto, non a caso, è il 10 febbraio.
Ora le vittime delle foibe aspettano il riposo eterno che i loro parenti vorrebbero innalzare, in loro memoria, nella volta celeste, nella speranza che lassù, un giorno, si possano ricongiungere ai cari scomparsi nel silenzio della furia ideologica, colpevoli solo di avere rifiutato il paradiso socialista in terra. O forse soltanto ignari degli sporchi giochi che la politica gioca sulle teste innocenti.
Il velo ha cominciato a squarciarsi ma tanto c’è ancora da fare per restituire ai morti la dignità ed ai vivi la verità.
