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L’esperienza mi rende più umano

Da Marcofre

Un aspetto che sfugge al lettore superficiale, è che una storia, romanzo o racconto che sia, è fatta sì di parole. E di cos’altro altrimenti?

Ma soprattutto di carne. Di ciccia insomma. Mi rendo conto che a questo proposito c’è un mucchio di opinioni e idee che dicono il contrario.

Spiace contraddire: ma una storia anche se è fatta di parole, è carne. Anzi: se non è carne non è una storia.

È vento, brezza, solletico. Per una realtà ammalata di gotta il solletico è un’autentica manna.

Non la carne.

Le parole per l’incipit sono i primi mattoni dell’organismo che forse nascerà e si evolverà. Romanzo? Racconto? Chissà. Di certo non siamo alle prese con un banale insieme di bla bla bla. Che poi accada, come ripeto spesso, è un altro paio di maniche.

Se vuoi parlare alla carne, usa la carne e nient’altro. Prima di tutto, questo rimette al centro quello che conta, e fa piazza pulita della retorica così di moda in questi tempi. Che cerca con determinazione di imporre una letteratura delle “emozioni”.

Non siamo niente del genere. È comodo pensarlo perché con le emozioni le persone sono più docili.

Qualcuno si chiederà: “Ma non ti emozioni di fronte a un tramonto?”

No.

Il tramonto è un fenomeno che arriva a me grazie a un insieme di altri fenomeni, che passano attraverso i sensi.

E arriva a me non per via delle emozioni, ma soltanto se imparo a usare i miei sensi nel modo migliore. Sono i sensi che mi permettono di distinguere i colori, le sfumature, la luce, e di rendere quell’esperienza onesta e reale. E non un insieme di luoghi comuni.

I luoghi comuni mi emozionano.

L’esperienza mi rende più umano.

Raccontare una storia, lunga o breve che sia, ci aiuta a rispettare il desiderio dei nostri antenati scimmieschi, che nelle savane africane decisero di scendere dagli alberi non perché erano emozionati dall’idea di fare due passi nell’erba alta.

Ma perché desideravano diventare umani.

 


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