Anna Lombroso per il Simplicissimus
“Sì a diritti ma il mondo è cambiato”, sostiene LaFornero. E ha ragione cambia, regredendo. Se progredisse dovrebbero crescere i diritti, allargarsi il numero degli “aventi diritto” e migliorarne l’accesso di tutti senza gerarchie o limiti.
Pare che il tempo e la storia con lui sia una spirale che si avvita su se stessa, non è vero che tutto cambi per restare uguale a se stesso, semmai cammina per tornare indietro e peggiorare in un vortice che con il crollo delle ideologie travolge anche le idee, i principi, le convinzioni, le speranze. Restano invece fermi gli edifici del pregiudizio, irriducibili gli eserciti della sopraffazione, inflessibili le regole dell’iniquità. E assumono una minacciosa potenza le menzogne convenzionali, professate come fede per persuadere all’inevitabilità delle disuguaglianze, mostrate esemplarmente come totem per convincere della moderna desiderabilità del profitto.
Una delle più consolidate è quella che dovrebbe farci credere che certi valori del lavoro, certe garanzie si possano sopprimere perchè non sarebbero riconducibili a bisogni collettivi, consapevoli e condivisi, e soprattutto perché non ci sarebbe una classe, un partito, una moltitudine a rivendicarli, rappresentarli, difenderli.
È proprio una tendenza di moda tra top manager in maglioncino o paschmina, politici, anche di quel che resta della sinistra, commentatori spregiudicati e ben collocati in comodi osservatori riferirsi agli operai e alla classe lavoratrice come fosse uno stereotipo frusto e arcaico, come se la lotta di classe fosse un attrezzo obsoleto residuato della rivoluzione industriale. E muove da un intento preciso, dare legittimità alla cancellazione di diritti e conquiste, ché tanto non si vedono manifestazioni di massa attribuibili a un “ceto” o partiti di peso elettorale o parlamentare che per statuto o programma li testimonino e difendano. Insomma vogliono farci credere che non essendo le classi “visibili” e la loro lotta distinguibile, non esistano più. eppure invece quella dei padroni c’è eccome, quella dominante c’è e ancora più poderosa con una “cupola” globale, fatta di grandi patrimoni, di alti dirigenti del sistema finanziario, di politici che intrecciano patti opachi con i proprietari terrieri dei paesi emergenti, di tycoon dell’informazione, insomma quella classe capitalistica transnazionale che domina il mondo e è cresciuta in paesi che si affacciano sullo scenario planetario grazie all’entità numerica e al patrimonio controllato. e della quale fanno parte nuove figure: decine di trilioni di dollari e di euro che per almeno l’80% rappresentano risparmi dei lavoratori, vengono gestiti a totale discrezione dai dirigenti dei vari fondi, dalle compagnie di assicurazioni o altri organismi affini, quelli che qualcuno ha chiamato i capitalisti per procura, poteri forti per la facoltà che hanno di decidere le strategie di investimento, i piani di sviluppo, le linee di produzione anche di quel che resta dell’economia reale, secondo i comandi di una cerchia ristretta e rapace, banche, imprese, investitori e speculatori più o meno istituzionali.
È una classe dominante globale che esiste in quasi tutti i paesi sia pure con pesi divesri ma uguale influenza. Tra i suoi interessi principali c’è il contrasto allo sviluppo di classi sociali che possano minacciare la sua egemonia e alla sovranità degli stati. E ha ottenuto il risultato che non è mai riuscito ai lavoratori, restare unita in nome dell’accumulazione, del profitto ma soprattutto nella lotta che più di classe di così non potrebbe essere, ai ceti che avevano acquisito miglioramenti economici e sociali e a quelli che vi voglio accedere. Ha un collante ideologico robusto, fucine di elaborazione cui aderiscono esponenti del nostro governo, esercita una pressione e una influenza tale da condizionare leggi in materia di politiche fiscali, delle relazioni industriali, di privatizzazione, di beni comuni. E poi conduce la sua guerra anche con i vecchi modi già sperimentati, l’espulsione dalle terre dei contadini, la riduzione dei fondi per la cooperazione o per la lotta alla fame, ma anche l’offensiva contro i sindacati.
Ecco, sono innumerevoli i metodi coi quali la lotta di classe di può condurre dall’alto verso o meglio contro il basso.
E uno è appunto la negazione che noi, qua giù, siamo una classe, e non solo una moltitudine disordinata e inconsapevole, un formicolare spaventato intorno al disgregarsi della socievolezza, della solidarietà, della cittadinanza. Non siamo sulla stessa barca, abbiamo interessi diversi, se gli uni ci sfruttano e se noi non vogliamo essere sfruttati, una considerazione semplice che risale perfino a Adam Smith e che non può essere smentita dai loro manutengoli, i Sacconi, i Monti, i Marchionne. In passato si sono omogeneizzati i consumi e gli stili di vita, oggi non è più vero nemmeno questo. Oggi ci distingue con ancora maggiore disuguaglianza e iniquità l’impoverimento della qualità del lavoro, l’impossibilità di una crescita professionale, l’improbabilità di una promozione sociale, l’erosione della dignità personale, le legittimità delle aspettative. E la paura di un futuro che da promessa è diventato solo minaccia.
Il pensiero che doveva testimoniarci, rappresentarci e difenderci è stato largamente catturato, in nome di una globalizzazione che ha il significato dell’annichilimento dell’alternativa al loro sviluppo insensato e maligno. Dobbiamo ricostruirlo, contrapporre i nostri interessi, la nostra visione del mondo, le nostre aspettative, la nostra morale alla loro ideologia. Qualcuno ha detto che dobbiamo passare dall’essere una classe in sé a una classe per sé. Forse dobbiamo fare un passo ancora, quello di una umanità per tutti, ma questo significa riprendersi la lotta politica, la responsabilità, la conoscenza, il passato per riconquistarci il futuro invece di averne nostalgia.