MONICA VIOLA, Tana per la bambina con i capelli a ombrellone, Rizzoli, Milano 2008.
di
Andrea Sartori
È l’«ansia da sovraffollamento» di una famiglia composta da genitori, otto figli, una nonna – nella Roma a cavallo tra gli anni settanta e ottanta – a rendere un «lungo e lento verme» l’accavallarsi domestico di voci, urla e bisogni, che si susseguono in un appartamento spazioso eppure troppo piccolo, per consentire le sfogo dell’inevitabile nucleo nevrotico di una tale convivenza coatta.
Inizia così il romanzo di formazione di Monica Viola, che descrive la crescita della sua bambina con i capelli a ombrellone, ultima nata in una famiglia in cui il padre sottomette a sé gli altri, tamponando ribellione e paura con scenate, minacce, botte e grida. La figura patriarcale è qui il tappo che contiene negli spazi angusti della famiglia – un vero e proprio «esercito in addestramento» – una miscela esplosiva fatta di pulsioni, utopie di felicità, rivendicazioni sottaciute, desideri d’identità. Conseguenza del dominio maschile è allora, inevitabilmente, l’avvertimento di una colpa assoluta, che si abbatte sulle spalle troppo esili della figlia più giovane, distorcendole la percezione della propria vita, che risulta segnata dal senso di un’apparentemente inemendabile «colpa di esistere».
La geografia interiore della protagonista, soprattutto nella prima parte del libro, è ancorata allo spazio esteriore della casa in cui la giovane vive, come se questo, con la sua disposizione di angoli e antri, recasse con sé le tracce di un disagio della mente. Il letto ribaltabile in cui la bambina dorme, una volta aperto lascia un margine vuoto fra il muro e la rete, metafora di una poetica dello spazio in cui le spalle della protagonista e il suo fianco sono sempre scoperti, esposti al rischio, al panico dell’assenza di riferimenti. Unica liberazione dal labirinto ansiogeno degli affetti sono i periodi di vacanza trascorsi altrove, lontana dal luogo che custodisce i ricatti dell’amore e delle aspettative. Queste ultime, a casa, divengono insostenibili e mettono la giovane a confronto con la grazia delle sue compagne di scuola, amiche dallo chignon perfetto, che eccellono nella danza. Il complesso del brutto anatroccolo si fa strada a suon di frustrazioni, fino alla convinzione di essere la deforme «capretta espiatoria» della famiglia, in particolare di una delle sorelle, e la «portatrice di un handicap cognitivo», legato al non riuscire a digerire la matematica a scuola.
Il modello femminile – la madre – d’altra parte, risulta inaccessibile e protetto da un velo trasparente, che lo rende un’icona angelica, della quale tutti – a partire dal padre – si contendono l’affetto, l’attenzione, il perdono. Il rifiuto del cibo animale e le mille vie della somatizzazione del dolore sono le chiavi di uno scrigno interiore che tuttavia nessuno, o quasi, riesce ad accogliere, interpretare, comprendere.
Nessuno, o quasi. La nonna, infatti – dalle esotiche origini caraibiche e a sua volta figlia illegittima, ovvero gettata nell’esistenza senza certificazione – è l’unica che sa difendere la bambina con i capelli a ombrellone, allorché questa subirà le attenzioni morbose e gli abusi di ben due dei fratelli più grandi. Neppure la risolutezza della nonna, tuttavia, basta a salvare la protagonista dal senso di colpa e dal conseguente masochismo, che lei stessa nutre pur nel disprezzo del suo aguzzino, concedendosi a lui un’ultima e decisiva volta, quando ormai sarà una ragazza delle scuole superiori, una giovane donna a tutti gli effetti. Se solo la nonna è in grado di sottrarsi alla doppia morale della famiglia – che condanna l’abuso ma ben presto vi stende sopra la coperta dell’oblio e del mutismo – nulla riesce a far saltare questa logica perversa, analoga a quella in vigore nei campi di concentramento nazisti. Come ebbe infatti a scrivere Leo Löwentahl in un saggio del 1946, Individuo e terrore, il sistema del terrore può dire di avere raggiunto il proprio obiettivo quando la vittima non percepisce più il baratro che la separa dal suo carnefice. E la famiglia della ragazza – concentrata, ammassata, affollata – assomiglia di fatto a un simile dispositivo della paura, in cui il gran numero dei componenti annacqua la percezione delle ripartite responsabilità individuali: «qualsiasi cosa entrasse in casa nostra veniva assorbita, centrifugata e annientata senza colpevoli precisi: la forza distruttiva dell’essere talmente tanti da fare massa». Nella confusione dei ruoli, delle responsabilità e delle colpe, la protagonista conquista come può – anche concedendosi consenziente all’incesto – brandelli di potere, che la facciano sentire necessaria a qualcuno, conditio sine qua non del piacere di qualcun altro. Ma anche «colpevole e sporca». Abbandonandosi a ciò che le suscita repulsione, la giovane tenta una strada che non può tuttavia che essere provvisoria, circoscritta, limitata, poiché disallineata rispetto a quanto in lei arde come un fuoco inestirpabile, ovvero l’amore e la paura: «Il mio bisogno di amore straripava da me come una malattia e faceva tenere tutti lontani, soprattutto i miei piccoli coetanei […]. Avevo paura del sopruso, della richiesta insaziabile, frettolosa, irrispettosa del mio corpo e della mia integrità. Meglio sedurre da lontano».
Accompagnandosi intorno alla fatidica data del 1977 a ragazzi che subiscono incoscientemente il fascino delle opposte ideologie, la bambina con i capelli a ombrellone inizia ad apprendere l’arte della seduzione come cifra del proprio stare in mezzo agli altri, cercando di dosare prossimità assimilatrice e lontananza che consente autonomia e respiro. Si fa così via via più attenta a non perdersi nel continuo andirivieni fra se stessa e gli altri. Alla famiglia – sempre più malata, ora il destino della madre è segnato – subentrano gli amici, costituiti indifferentemente dalla compagnia del Piper, dai pariolini fighetti e destrorsi, dai collettivi femminili della sinistra radicale. Sentendosi ovunque un po’ «posticcia», aggiunta all’ultimo minuto, inadeguata e senza giustificazione a vivere, la giovane impara a non consumarsi bruciando nel proprio bisogno di amore: «vorrei essere amata ma mi devo accontentare di sedurre». Ricerca di una misura, sacrificio di una parte di se stessa per non annientarsi del tutto. La famiglia viene progressivamente lasciata alle spalle, favorendo la costituzione di un’immagine di sé incardinata su altri riferimenti, nutrita da altri gruppi di persone, a cui cercare di appartenere.
Anche con gli amici la ragazza applica il principio imparato a proprie spese nell’ambito di un famiglia in cui l’amore o è divorante, cannibalistico, o non è. Nei nuovi contesti l’appartenenza è a suo modo dialettica, è e allo stesso tempo non è: «Voler essere nel gruppo e allo stesso tempo non dare adesione totale, non volermi sentire dentro il recinto. Il cane randagio cerca il padrone ma poi il giardino gli va stretto e morde il guinzaglio che sognava di avere al collo. Oscillavo». Educazione alla distanza, a non precipitare addosso all’altro, a non sprofondare, specularmente, dentro di sé.
Il mondo esterno, nel 1978, si è intanto fatto sentire potentemente con il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro, con la violenza che riempie le strade, permettendo alla giovane di sbirciare ulteriormente attraverso la breccia del proprio io, e di volgere l’occhio a un tempo oggettivo, che ha già una sua colonna sonora, la quale diventerà irrinunciabile negli incipienti anni ottanta. Si respira un’atmosfera fatta di «sensazioni di pensiero», più che di pensieri, in cui il terrore vissuto a casa diventa una variazione del terrorismo vissuto dal paese, in cui la paura idiosincratica e individuale è declinazione delle paranoie collettive innescate dalla strategia della tensione.
In un passaggio del romanzo, dove viene fatto una sorta di bilancio della prima giovinezza, la protagonista lucidamente dice: «Ho cercato di trovare senso alla vita in cose estranee alla famiglia, ho cercato l’affetto nello sfruttamento sessuale, autostima nel sedurre coattivamente, sicurezza nell’ostentazione del corpo, identità nello stare nel branco, attenzione nell’egocentrismo, simpatia nell’esibizione. La mia vita è un castello di carte, sento il loro fruscio».
La morte dell’amata madre determinerà il crollo di questo castello di carte, mettendo la ragazza di fronte a una realtà che almeno farà piazza pulita di inutili nevrosi da abbandono: «la realtà ha fatto diventare calmo il mare della mia ansia da abbandono e sono entrata in un porto triste ma protetto, sotto controllo. Meglio orfana che in attesa di diventarlo».
E tuttavia, quando la madre è ancora in vita, la carta di cui quel castello di paure era intessuto, può rivelare la propria essenzialità per la vita. L’ormai ex bambina dai capelli a ombrellone scrive infatti dalla Svezia, in cui si trova per un breve soggiorno, delle lettere alla madre; delle lettere che mai hanno veicolato tanta autenticità. La scrittura diventa l’intercapedine salutare che s’insinua tra il sé e il mondo, difendendo il primo da un’emotività troppo acuta e consentendogli di esprimersi per la prima volta in maniera nuova, piena, senza timori di inadeguatezza: «scrivendo mi trasformo». Indirizzando delle lettere alla madre malata e lontana, la protagonista mette a frutto quanto ha imparato in merito alla distanza che preserva l’interiorità degli individui dalla prevaricazione, e insieme consente di accedere al linguaggio, alla comunicazione.
È la conquista di questa «bella estraneità» (Jospeh F. von Eichendorff) – così diversa dalla percezione dell’estraneità del familiare – a rendere più serene le prospettive di un futuro che sta scivolando, con l’affacciarsi degli anni ottanta, dentro alla televisione, ovvero nuovamente dentro alla menzogna e alla dissimulazione.