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Il nome di un regista francese nato a Bailleul, nord della Francia, nel 1958. Il nome di un autore che può vantarsi di aver vinto due Grand Prix nella sua carriera numericamente contenuta, cosa che in passato era successa solo a Tarkovsky. Il nome, anche, di un insegnante di filosofia. Ma il nome, soprattutto, che riempirà le colonne di questo blog nei mesi a venire.
Dopo due cortometraggi denominati rispettivamente Paris (1993) e Marie et Freddy (1994, opera che presumo abbia molto a che fare con questa avendo come titolo i nomi dei due protagonisti), Dumont esordisce sul grande schermo con La vie de Jésus (1997), pellicola ambientata nel piccolo paese natale che riprende lo scorrere quotidiano di un gruppo di ragazzini alle prese con la vita agra della provincia.
Quella di sondare il perturbante mondo dell’adolescenza problematica è un’operazione effettuata decine e decine di volte nel mondo di celluloide. Abbiamo visto giovini farne di ogni, farsi le mamme dei vicini (Ken Park, 2002), e sfarsi spesso e volentieri di svariate sostanze stupefacenti. I ragazzi di Dumont, invece, sfuggono a questo identikit, o almeno ci provano: non si drogano, non bevono, non rubano, non commettono niente di così peccaminoso da poter entrare in un film di Clark o Araki, eppure la loro raffigurazione è egualmente, anzi, è molto più lesiva rispetto a quella dei parietà d’oltreoceano. E le motivazioni possono essere ricondotte a due riflessioni di sotto esposte.
BAILLEUL, LA PERIFERIA DEL MONDO
Il contesto in cui si svolge la storia è, come sottolineato, una cittadina situata nella regione Nord-Passo di Calais. In questa comunità sembra, ma sicuramente è così, che non ci sia niente di interessante. Una lunga strada fiancheggiata da basse palazzine tutte uguali, un bar, un cimitero, una piazza, non c’è nient’altro. In un quadro del genere l’adolescenza di 5 ragazzini si assoggetta alla noia, essa diventa succube delle cose futili e mira alla materialità; non è importante il lavoro, per Freddy basta e avanza il sussidio da orfano per andare avanti, non è importante la relazione sentimentale, piuttosto succhiare il nettare della giovinezza da una coetanea, e qui l’esibizione quasi pornografica dell’atto sessuale non va visto come furbata registica ma come evidenziazione di un amore acerbo, irresponsabile; non è importante il tradimento in sé ma piuttosto l’onta di venir sfrattati dal pube dell’amata da uno sbarbatello arabo. E il mondo esterno? Praticamente non esiste. In tv passano solo immagini di guerra, di sofferenza, i film ci sono ma iniziano sempre in ritardo e non ne vengono ricordati i titoli. Lille è una città così vicina eppure distante chilometri non percorribili.
Bailleul è quindi una specie di recinto che imprigiona questi 5 giovani i quali non avendo nulla intorno, a loro volta non credono in nulla, non hanno speranze, per uno di essi, infatti, Gesù è solo quel tizio che è resuscitato.
DUMONT, IL CINEMA AL CENTRO
Ma Dumont fa cinema d’autore. Anche se è all’esordio si evince già una precisa impronta che vuol dare spessore intellettuale alla storia. E ci riesce benissimo poiché a differenza di molti film adolescenziali che puntano all’impatto visivo/emotivo con un certo maledettismo sullo spettatore, Dumont appaia a questa vigoria estetica – d’altronde le scene di sesso ci sono, inutile negarlo – ad un lavoro fatto di prospettive metaforiche che forniscono angoli di visuale differenti ma convergenti su uno stesso punto: il nichilismo proteiforme che forgia i protagonisti.
Ancora prima che visivamente, il film offre a livello acustico un parallelo convincente. La realtà del gruppo è contrassegnata da un sottofondo costantemente disarmonico, i motorini producono infatti un ronzio continuo e imperterrito che solo in apparenza riempie le loro giornate. Il fringuello di Freddy, giust’appunto, non canterà mai, nemmeno in seguito alle sollecitazioni del suo padrone, ed anche le prove con la banda del paese sono solo occasioni buttate al vento, momenti per deridere la cicciona del gruppo. Non c’è musica, non c’è arte, in una parola non c’è vita.
E all’occhio attento non sfuggirà che le strade del borgo sono completamente deserte [1], mai si vedrà qualcuno che le percorre, ciò rafforza il concetto di isolamento in cui sono calati i giovani protagonisti ognuno alle prese con una solitaria via crucis fatta di fratelli morti per AIDS, razzismo, epilessia, cieli rannuvolati e lontanissimi uccellini che cinguettano.
Un solito film sulla primavera della vita? Assolutamente no.
Un film diverso sulle pene della pubertà? Nì.
Un film che ad ogni modo merita la visione? Eccome.
___________
[1] È incredibile come il campo lungo della strada principale sia pressoché identico alla via-anticamera dell’ottimo Wild Side (2004) di Lifshitz. E, altra coincidenza, in entrambe le opere si registra la presenza di Yasmine Belmadi, attore franco-algerino morto nel 2009 a causa di un incidente stradale.
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