di Maria Serra
Nel suo libro “Storia dell’idea d’Europa”, Federico Chabod descrive l’Europa non solo come “una certa estensione di terre, bagnate da certi mari, solcate da certe catene montuose; sottoposte ad un certo clima etc;” ma intende “alludere ad una certa forma di civiltà, ad un ‘modo di essere’ che contraddistingue di primo acchito l’‘Europeo’ dall’uomo di altri continenti”. Ciò a cui lo storico italiano si riferisce è il patrimonio di idee e valori che caratterizzano le popolazioni europee, ciò che lui definisce “forma mentis”, “l’eredità dei padri, antica ormai di millenni, che noi rechiamo in noi, sin dal nostro nascere; e che a nostra volta arricchiamo e facciamo sempre più complessa con la nostra esperienza, i nostri pensieri, i nostri affetti, per tramandarla ai figli e ai nipoti”. Tutti elementi, dunque, che ci differenziano dalle tradizioni e “dalle memorie di Indiani, Cinesi, Giapponesi, Etiopi, etc”. Eppure, presa coscienza della propria complessità interna, arriva un momento in cui ci si confronta con l’esterno: riprendendo ancora Chabod, arriva un momento in cui, cioè, si percepisce l’Europa come “qualcosa di essenzialmente diverso, per costumi, sentimenti, pensieri, dagli uomini abitanti in altre terre al di là del Mediterraneo, sulla costa africana, o al di là dell’Egeo e del Mar Nero, in terra asiatica”. Quando cioè non si designa più solo un complesso geografico, ma un’entità con suoi fattori morali, religiosi, politici che si riferiscono ad essa sola.
Di tale complessità che caratterizza l’Europa al suo interno, ma anche in rapporto a soggetti esterni, abbiamo parlato al termine dell’incontro “L’Unione senza forza – la crisi dell’identità europea”, nell’ambito del Festival di Internazionale 2012, con Eric Jozsef, corrispondente in Italia del quotidiano francese Libération, collaboratore del quotidiano ginevrino Le Temps e di altre testate giornalistiche italiane. Jozsef, che avevamo già incontrato nella precedente edizione della manifestazione ferrarese, è stato Presidente dell’Associazione Stampa Estera in Italia e per Arte, canale culturale franco-tedesco a vocazione europea, ha realizzato i documentari: Gene(s)rations, dedicato agli avvenimenti del 2001 a Genova durante il G8 e Halte à la Mafia.
L’attuale dibattito sui temi economici e finanziari sembra aver fatto dimenticare come fino a pochi anni fa si discuteva a proposito delle radici cristiane dell’Europa, che secondo alcuni bisognava inserire nella Costituzione europea. Data l’importanza dell’aspetto religioso nella costruzione dell’identità di un popolo, quanto pesa secondo Lei il declino dello spirito religioso nella costruzione dell’identità europea?
Credo ci sia un termine chiave per descrivere l’Europa, e questo è “laicità”. L’Unione Europea – che tengo a sottolineare è un frutto del Novecento – ha certamente delle origini religiose ed è un crogiolo di confessioni che vi vivono all’interno, però è anche vero che una delle sue più precipue caratteristiche è quella di aver messo dei confini rispetto a questa religiosità. Spesso si dice che i Padri fondatori – Schuman, Adenauer, De Gasperi – avessero una visione cristiana dell’Europa, ma credo che questo sia vero solo in parte. D’altra parte, inoltre, l’Europa è stata costruita anche attraverso l’azione di Jean Monnet, che non era per nulla cristiano; così anche il Manifesto di Ventotene di Spinelli era un manifesto laico. L’Unione Europea è oggi un’unione politica – o che mira ad essere tale – che riconosce sì il fattore religioso, ma che sa anche creare delle regole per riaffermare la laicità.
Eppure, costruita l’Europa economica con Maastricht, si sarebbe dovuto procedere anche con una riscoperta dell’etica e della spiritualità: questo almeno secondo il progetto di Jacques Delors, “une âme pour l’Europe”. I suoi mandati furono certamente tra gli ultimi realmente ispirati. Com’è cambiato il modo di intendere la politica a Bruxelles negli ultimi vent’anni?
Una volta ci siamo affidati ad esponenti politici responsabili e in parte abbiamo fatto sicuramente bene: erano uomini che avevano un patrimonio di esperienze alle spalle e malgrado le loro, per così dire, “idiosincrasie nazionali”, avevano memoria storica – penso a Mitterand – e hanno lasciato alle Commissioni Delors lo spazio per portare avanti un progetto europeo. Oggi non è più così. Negli ultimi anni abbiamo assistito ad un fallimento generazionale. Ci troviamo di fronte ad una classe politica priva di questo patrimonio e ci ritroviamo dinnanzi ad un’“Europa dei fatti”: la moneta unica è una realtà, ma non vi è più un progetto ispiratore. Non possiamo fidarci di questa classe dirigente europea poiché il politico oggi si muove nell’ambito dei consessi intergovernativi per difendere gli interessi del proprio Paese di appartenenza. Solo ogni tanto – come si è visto lo scorso giugno in occasione dell’accordo sui fondi per il salvataggio delle banche – si riesce a prendere una decisione che coinvolga la collettività, ma questo solo perché può produrre effetti positivi per tutti. Però, in via generale, non c’è la volontà di dire “dobbiamo lavorare per l’Europa”. Dall’inizio della crisi economica si sono succeduti diversi Consigli Europei, ma quanti risultati sono stati realmente raggiunti? Il Presidente del Consiglio Monti si è molto speso per difendere l’operato del metodo intergovernativo, ma anche lui, benché sia un europeista convinto, ha agito per difendere innanzitutto la situazione italiana. Che poi ciò saltuariamente corrisponda agli interessi francesi, spagnoli, tedeschi, è un altro discorso. C’è anche un altro aspetto da tenere in considerazione: quanto effettivamente si parla di politica estera? Questo, almeno secondo il Trattato di Lisbona, dovrebbe essere uno degli aspetti maggiormente caratterizzanti l’azione europea. Ecco, io credo che non possiamo riporre fiducia in questa classe politica che all’improvviso ha scoperto l’Europa.
A proposito di esteri, nel corso dell’incontro “L’Unione senza forza – la crisi dell’identità europea” Dmitri Deliolanes è stato l’unico ad accennare al problema geopolitico dell’UE. Esiste secondo Lei un progetto geopolitico europeo? E come si può sviluppare, se si può sviluppare, anche al di là della regione mediterranea?
Bisogna mettere subito in chiaro una cosa: Catherine Ashton è stata chiamata appositamente per non far nulla. Germania e Francia, ma soprattutto Francia, non volevano personalità ingombranti, come per esempio poteva essere Tony Blair. Stesso discorso vale per la scelta del Presidente del Consiglio Europeo, Herman Van Rompuy. Tre anni fa la scelta ricadde su personaggi di bassissimo profilo. Su queste basi, congiuntamente con l’esistenza di diverse storie nazionali, diventa difficile giocare un ruolo geopolitico. Tuttavia, penso che in contesti come quello mediorientale l’Unione Europea possa ugualmente dire la sua. L’Europa è il continente che dà di più in termini di aiuti umanitari nel mondo, eppure su alcune tematiche è stato difficile raggiungere un accordo unanime tra i Ventisette. Si è visto soprattutto sulla Libia, in quanto la Germania non condivideva l’intervento franco-britannico e nonostante tutto, nonostante l’accordo tra Sarkozy e Cameron, ci sono stati diversi problemi di operatività, anche nell’ambito del consesso NATO, come dimostrato dall’esaurimento delle munizioni. Eppure, se vogliamo contare, l’azione europea dovrà passare soprattutto dal contesto mediorientale, non foss’altro per la prossimità geografica e per gli enormi interessi economici che vi sono dietro. Credo che costruire un’identità, avere una visione comune, aiuti anche ad avere un progetto esterno e ad acquisire credibilità internazionale.
Parlare di NATO implica naturalmente considerare i rapporti con gli Stati Uniti, che negli ultimi anni hanno conosciuto un progressivo raffreddamento. Come crede che si possano sviluppare in futuro le relazioni transatlantiche, anche in vista delle imminenti elezioni? Nel corso della campagna elettorale né Obama né Romney sono sembrati porre eccessiva enfasi su questo tema. Quali potranno essere le prospettive?
La situazione credo sia abbastanza chiara: ci sono due opzioni che dipendono dai diversi approcci di Obama e Romney. Quest’ultimo è favorevole ad un ritorno degli USA sulla scena mondiale a 360°: essere cioè ciò che sono stati fino ad alcuni anni fa, punto di riferimento principale in tutti i contesti internazionali. L’approccio di Obama è diverso, come dimostrato in effetti nel caso della guerra in Libia, in cui gli USA sono sembrati non volersi esporre troppo, lasciando ad altri soggetti la determinazione delle vicende. In questo senso si può dire che la visione di Obama è molto più multipolare: egli pensa che gli USA sono ancora una grande potenza, ma non l’unica, al punto che, di fatti, ha ri-orientato la politica estera verso l’Asia-Pacifico. Al tempo stesso è pur vero che la crisi europea rischia di produrre gravi effetti anche negli States. Ed è in ragione di questa considerazione che Obama sta spingendo affinché venga trovata una soluzione per il “soldato greco”. Voglio dire che se non possiamo affermare con certezza che l’Europa ha bisogno degli USA e viceversa, certamente abbiamo in comune più cose di quanto si pensi. E dunque penso che il tempo della contrapposizione debba considerarsi superato e che dobbiamo entrare – ed è nell’interesse di entrambi i continenti farlo, pena la perdita di peso in ambito internazionale – nella fase della collaborazione. Ma per far questo c’è bisogno che l’Europa si sviluppi nella maniera giusta: molti Americani, e in particolare Obama, avvertono la necessità di avere un interlocutore più forte e più maturo. Gli Stati Uniti non devono essere più percepiti come un soggetto a cui contrapporsi poiché siamo sempre più in un mondo multipolare. A dimostrazione di ciò si pensi che se continuerà questo trend nessun Paese europeo si ritroverà nel G8; cosi come con ogni probabilità gli USA non saranno più i primi del G8. Anche nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU Europei e Americani non riescono a far valere la propria posizione come un tempo.
Questo discorso ci porta inevitabilmente a parlare di Cina, da cui provengono probabilmente le maggiori sfide – soprattutto a livello economico – per il mondo occidentale e per l’Europa. Su quali basi potrà svilupparsi il rapporto tra Bruxelles e Pechino nei prossimi anni?
Attualmente la Cina rappresenta sicuramente un modello economico. Ma noi Europei abbiamo modelli sociali, modelli politici – e sistemi democratici –, modelli culturali molto diversi. Come si affronta la crescita orientale? Io credo restando uniti e dimostrando che anche noi su alcune tematiche possiamo avere una visione comune e un modello da esportare: penso in particolare alle norme ambientali o al rispetto dei diritti umani. Se si mettono da parte le divisioni, allora si può iniziare un discorso. Con la Cina è necessario avere un dialogo: bisogna far entrare le energie cinesi nel nostro continente, ma chiedendo un minimo di garanzie sociali, ambientali. Io credo che i Cinesi, data la loro pragmaticità, siano ben disposti a farlo. L’Europa è ancora una volta alla prova.
* Maria Serra è Dottoressa in Scienze Internazionali (Università di Siena)