di Salvatore Denaro
Quest’articolo fa parte degli approfondimenti di BloGlobal per il Festival d’Europa 2013
Per svolgere un’analisi sulle azioni svolte in ambito comunitario sul tema dell’immigrazione, occorre partire da alcune valutazioni sul piano storico, strettamente collegate a necessità demografiche, cambiamenti delle origini geografiche dei flussi e delle caratteristiche socio-economiche dei migranti. Seguendo questo schema, è possibile fare una suddivisione in tre grandi fasi delle migrazioni in Europa nell’ultimo secolo.
La prima fase riguarda il periodo immediatamente successivo alla seconda guerra mondiale. Erano gli anni in cui l’immigrazione veniva intesa come un’opportunità di rilancio demografico, necessaria per la ricostruzione e per la crescita dopo le devastazioni della guerra. Questo periodo fu altresì caratterizzato dalle migrazioni dai Paesi decolonizzati e da quelli devastati dalle sanguinose guerre di indipendenza come Uganda, Tanzania e Kenya, ma anche dall’India e dal Pakistan. Le ondate migratorie, pertanto, sfuggivano dal controllo delle autorità politiche e venivano affrontate attraverso politiche del tipo laissez-faire.
La seconda fase si apre con l’inizio degli anni ‘70, ovvero quando la crisi economica e sociale ha evidenziato l’impossibilità di far fronte ad ondate migratorie su larga scala. Ecco che le grandi migrazioni avvenute nella fase precedente subirono un brusco stop e le forti implicazioni sociali causate dagli altissimi livelli di disoccupazione portarono a misure drastiche nel contenimento del fenomeno migratorio. La recessione economica conseguente alla crisi petrolifera produsse una forte contrazione della domanda di manodopera determinando l’adozione di misure restrittive, soprattutto da parte dei Paesi dell’Europa centro-settentrionale. Infatti, l’emigrazione si spostò verso i Paesi europei meridionali come Italia, Spagna e Grecia dove si diressero flussi provenienti soprattutto da Nord Africa e Mediterraneo Orientale.
La terza fase parte a ridosso degli anni ‘90 fino ai giorni nostri. L’evoluzione del fenomeno migratorio è stata caratterizzata da eventi epocali come la caduta del muro di Berlino, la Guerra del Golfo, le instabilità politico-sociali del Medio Oriente, la crisi dei Balcani, l’11 Settembre, le guerre in Afghanistan e in Iraq ed infine la cosiddetta “Primavera Araba”. Trasformazioni di carattere economico, politico e culturale si sono racchiusi nel termine “globalizzazione”, allargando il concetto di migrazione a livello mondiale. Detto ciò, è apparso evidente a tutti gli Stati la necessità di affrontare tematiche simili non più in modo isolato ed autonomo. Nel corso degli anni ‘90 abbiamo assistito ad un lento e graduale trasferimento delle tematiche migratorie all’interno dell’agenda delle Istituzioni comunitarie: l’Europa ha preso atto del fatto che una materia come quella migratoria non può continuare ad essere gestita in modo indipendente dagli Stati, proprio in ragione degli evidenti limiti dell’approccio intergovernativo. Il metodo “comunitario” è apparso, quindi, più idoneo per affrontare un tema tanto globale quanto legato ad una serie di dinamiche prettamente nazionali di carattere economico, sociale e culturale (ed elettorali…).
Dal Trattato di Maastricht a Lisbona: il difficile tentativo di “comunitarizzare” le politiche migratorie
Come accennato in precedenza, a partire dagli anni ’90 le Istituzioni comunitarie iniziarono a considerare le politiche migratorie strategiche nel difficile percorso di integrazione della Comunità Europea. Nella Conferenza Intergovernativa (CIG) che ha preceduto il Trattato di Maastricht, il governo tedesco e, in un secondo momento, il governo italiano e belga proposero una completa “comunitarizzazione” della materia migratoria. Ma il “no” del governo britannico condusse ancora una volta ad affrontare la politica migratoria esclusivamente a carattere intergovernativo. Tuttavia il Trattato di Maastricht la definì come una questione di interesse comune nell’ambito del terzo pilastro dedicato alla giustizia e agli affari interni (Titolo VI, art. K1 del TUE), ovvero le condizioni di ingresso e permanenza dei cittadini di Paesi terzi, le politiche di asilo e il contrasto all’immigrazione irregolare.
Con il Trattato di Amsterdam del 1997, entrato in vigore nel 1999, la politica migratoria compie un passo decisivo verso la comunitarizzazione, diventando oggetto di competenza concorrente tra Unione Europea e Stati membri. I temi immigrazione e asilo confluiscono dal terzo pilastro di Maastricht al primo, sancendo la fine della sgradevole associazione della politica migratoria con le disposizioni del terzo pilastro riguardanti il contrasto alla criminalità. Venne superata la cooperazione intergovernativa del precedente Trattato anche se i limiti imposti dal principio di sussidiarietà (art. 5 TCE) e dell’art. 63 [1] limitarono de facto il processo di comunitarizzazione della materia. Occorre inoltre aggiungere che per la completa realizzazione di tale processo è stato disposto un periodo transitorio di cinque anni, dal 1999 al 2004, in cui per le approvazioni delle delibere era necessaria l’unanimità del Consiglio europeo. Inoltre, ad Amsterdam è stato introdotto un meccanismo che ha reso possibile il processo di comunitarizzazione di alcune materie come ad esempio quelle del Titolo IV, oggetto della nostra analisi (Visti, asilo, immigrazione ed altre politiche connesse con la libera circolazione delle persone). Infatti, grazie alla cooperazione rafforzata, una maggioranza di Stati poteva aumentare il livello di integrazione e non essere bloccata da un gruppo di Stati che su alcune tematiche, come quella in questione, voleva mantenere un approccio nazionale. Questa flessibilità ha portato all’introduzione di meccanismi di opting-out (vie d’uscita) rispetto ad alcune parti del Trattato, che se da un lato aumentavano il processo di comunitarizzazione, dall’altra hanno aperto la strada ad un’Europa a due velocità.
Tra il 2000 ed il 2001 le iniziative della Commissione hanno riguardato i ricongiungimenti familiari, l’accoglimento dei rifugiati, l’attuazione del principio di parità di trattamento e lo status dello straniero residente. A cavallo tra il 2001 e il 2002 le proposte che giungevano dalla Commissione e dai governi erano sempre più legati ad aspetti giuridico-penali dell’immigrazione irregolare mettendo in secondo piano l’effettiva fruizione dei diritti umani da parte dei migranti irregolari. Andarono in questa direzione la Comunicazione del Piano d’azione su una politica comune sull’immigrazione illegale (COM 2001-672) e la Comunicazione su una politica comune di rimpatrio dei residenti illegali (COM 2002-564). Il vertice di Siviglia del 2002, sull’onda emotiva dei fatti dell’11 settembre, non ha fatto altro che dare priorità al contrasto all’immigrazione irregolare anche attraverso un piano per la gestione e il controllo delle frontiere esterne [2].
Flussi di immigrazione clandestina - Fonte: Liberation
Il primo gennaio 2003 è entrato in vigore il Trattato di Nizza. Direttamente connessa al Trattato, pur essendo un allegato a carattere non vincolante, è la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Proclamata a Nizza il 7 Dicembre 2000 da Parlamento europeo, Consiglio e Commissione, contiene alcune disposizioni che si applicano anche nei confronti degli stranieri [3]. In virtù dello spirito della Carta di Nizza, la Direttiva 109 del 2003 ha disposto il diritto al riconoscimento dello status di residente di lungo periodo allo straniero che abbia soggiornato regolarmente in qualunque Stato membro e quindi le limitazioni alle ipotesi di allontanamento, la parificazione ai cittadini comunitari riguardo l’accesso ad alcuni servizi, il diritto di circolare e di soggiornare in un altro Stato membro per un periodo superiore a tre mesi.
Nel 2005 la Commissione europea ha elaborato il “Libro verde sull’approccio dell’Unione europea alla gestione della migrazione economica” ovvero uno strumento che mira ad avviare un dibattito approfondito, con la partecipazione delle Istituzioni dell’UE, degli Stati membri e della società civile, sulle novità da introdurre a livello comunitario in materia di ammissione dei migranti per motivi economici e sul valore aggiunto dell’adozione di questa disciplina comune.
Aree di intervento dell’Agenzia europea per la gestione delle frontiere, FRONTEX – Fonte: Commissione europea
L’impasse a cui è andata incontro l’Unione Europea dopo il fallimento della Costituzione ad opera dei referendum negativi di Francia e Olanda è stata superata nel 2009 dal Trattato di Lisbona, il quale oltre a confermare l’impegno dell’Europa verso una comune politica migratoria, ha reso vincolante la Carta dei diritti fondamentali attraverso lo strumento del rinvio recettizio contenuto nell’art. 6 par.1 del Trattato sull’Unione Europea. Nella sostanza il Trattato di Lisbona non cambia le impostazioni strutturali stabilite nei trattati precedenti e mantiene inalterata la prerogativa statale nella gestione dei flussi d’ingresso. Meritano di essere citate la Direttiva 2004/114/CE del Consiglio del 2004 relativa alle condizioni di ammissione dei cittadini di Paesi terzi per motivi di studio, la Direttiva 2004/81/CE del 2004 riguardante il titolo di soggiorno da rilasciare ai cittadini di paesi terzi vittime della tratta di esseri umani o coinvolti in un’azione di favoreggiamento dell’immigrazione illegale che cooperino con le autorità competenti, la direttiva 2005/71/CE per l’ammissione di cittadini di Paesi terzi a fini di ricerca scientifica, la direttiva 2008/115/CE relativa al rimpatrio di cittadini di Paesi terzi irregolarmente soggiornanti. Infine, particolarmente importante e significativa è stata l’emanazione della Direttiva 52/CE [4] del 2009 in cui Consiglio e Parlamento europeo hanno introdotto norme relative a sanzioni e provvedimenti nei confronti dei datori di lavoro che impiegano cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno è irregolare.
Le recenti azioni dell’Unione Europea sull’immigrazione: inversione di tendenza?
La “Primavera Araba” del 2011 ha drammaticamente riportato all’interno delle Istituzioni europee il tema dell’immigrazione. La necessità di aprire una nuova fase di politiche migratorie comunitarie non è solamente dettata da freddi rilievi statistici del fenomeno migratorio nel vecchio continente ma da nuove dinamiche economiche, sociali e politiche che riguardano non solo i Paesi geograficamente più vicini all’Europa. Dagli ultimi interventi della Commissione emerge proprio il tentativo di riportare il tema dell’immigrazione su un piano che non sia solamente quello della sicurezza, ma anche e soprattutto sul piano dei diritti umani, dell’integrazione, della gestione dei flussi regolari, di una nuova politica di vicinato che miri a promuovere lo sviluppo economico dei Paesi in questione.
Strettamente legata a quanto accaduto in Nord-Africa nei primi mesi del 2011 è la Comunicazione della Commissione europea del marzo 2011 dal titolo: “Un partenariato per la democrazia e la prosperità condivisa con il mediterraneo meridionale”. Qui l’Europa rivendica un ruolo da protagonista nell’azione di sostegno a tutti i Paesi che manifestano il loro impegno per la democrazia, i diritti umani, la giustizia sociale, il buon governo e lo Stato di diritto.
Oltre ad instaurare una nuova partnership di vicinato occorre sviluppare una concezione più moderna di integrazione. Per questo motivo la Commissione, spinta dai risultati di un sondaggio di Eurobarometro [5] sulla qualità dell’integrazione degli immigrati dei Paesi terzi nella società europea, ha individuato alcuni punti cardine delle future azioni che l’Europa dovrà impostare attraverso l’agenda europea per l’integrazione del 2011: interazione sul luogo di lavoro e nelle scuole e contributo dei migranti alla cultura locale. Secondo quanto ribadito dalla Commissione, appare assolutamente fondamentale eliminare le barriere che ostacolano l’accesso dei migranti all’occupazione, anche in ragione del fatto che l’Europa si troverà ad avere una forza lavoro nettamente inferiore a quella attuale (circa 50 milioni di lavoratori europei in meno entro il 2060). Altro aspetto necessario ai fini di una maggiore integrazione sarebbe quello riuscire a fornire ai migranti gli stessi diritti degli Europei. Infatti, il mancato riconoscimento dell’istruzione e delle esperienze maturate al di fuori dell’Europa, oltre ad essere fattori discriminatori, espongono i migranti al rischio di disoccupazione, sottoccupazione e sfruttamento. Infine, come più volte dichiarato da Cecilia Malmström, Commissaria europea per gli Affari Interni, “per la riuscita dell’integrazione occorre che i migranti abbiano la possibilità di partecipare pienamente alle loro nuove comunità”. Per raggiungere questo obiettivo, oltre a promuovere la creazione di organismi consultivi locali, regionali e nazionali, all’interno della Commissione europea è emersa la necessità di agevolare il voto degli stranieri residenti nelle elezioni locali. Anche perché sono oltre 20,5 milioni gli stranieri residenti in Europa, un numero in costante crescita secondo recenti proiezioni statistiche: “in prospettiva – ha affermato Cecilia Malmström – l’Unione Europea ospiterà il 20% degli emigranti mondiali, che rappresenteranno il 13% della popolazione europea”.
Il 18 novembre 2011 la Commissione europea ha pubblicato una Comunicazione sul nuovo Approccio Globale in materia di Migrazione e Mobilità (GAMM) aggiornando di fatto il documento precedente del 2005. Bruxelles oltre a ribadire gli strumenti giuridici e operativi sui tre pilastri base (migrazione regolare, migrazione irregolare, migrazione e sviluppo) ne aggiunge un altro: la protezione internazionale e la dimensione esterna della politica europea in materia di asilo. All’interno di quest’ultimo pilastro, i nuovi Programmi di Protezione Regionale (PPR) [6] rappresentano lo strumento principale per rafforzare i sistemi di asilo delle regioni e dei Paesi partner.
Lo scorso 19 giugno la Commissione attraverso la comunicazione della “Strategia per l’eradicazione della tratta degli esseri umani” ha posto delle linee guida per contrastare le moderne forme di schiavitù che coinvolgono sempre più i migranti del vecchio continente. La legislazione dell’Unione Europea ha più volte affrontato la questione della tratta degli esseri umani nelle sue numerose specificità, ad esempio in relazione allo sfruttamento sessuale dei minori e alle sanzioni nei confronti di datori di lavoro che impiegano cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno è irregolare. Si tratta di un tema che è oggetto di molteplici azioni a carattere nazionale, interregionale e di accordi bilaterali di Paesi membri con alcuni Paesi terzi. Per questo motivo, la Commissione con tale strategia intende offrire un quadro coerente dove ricondurre le iniziative esistenti e programmate e soprattutto fornire da supporto alla direttiva 2011/36/UE [7] concernente la prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime.
Da questi esempi appare evidente come le priorità dell’Unione Europea riguardo i migranti abbiano registrato un sostanziale cambiamento degli orientamenti rispetto ai programmi ed alle azioni della stessa UE fino ai primi anni del nuovo millennio. Ma nonostante lo sforzo di Bruxelles di scardinare il muro della diffidenza nei confronti degli immigrati, gli strumenti normativi, il deficit democratico all’interno delle Istituzioni europee e soprattutto l’estremo tentativo degli Stati di mantenere le prerogative sulle politiche migratorie, rendono le azioni dell’Unione Europea piuttosto lente, complesse, farraginose e quindi in ritardo con la necessità di decisioni rapide che il mondo d’oggi richiede.
* Salvatore Denaro è Dottore in Scienze Internazionali (Università di Siena)
[1] L’articolo 63 stabilisce che le misure riguardanti l’immigrazione “non ostano a che uno Stato membro mantenga o introduca, nei settori in questione, disposizioni nazionali compatibili con il presente trattato e con gli accordi internazionali”.
[2] Si veda: Capo III “Asilo e Immigrazione” delle Conclusioni della Presidenza sul Vertice di Siviglia del 21 e 22 Giugno 2002 consultabili su questo link.
[3] Ad esempio le norme che contemplano il diritto alla vita (art.2), all’integrità fisica e psichica (art.3), alla libertà e sicurezza (art.6), al rispetto della vita privata e familiare (art.7), all‟istruzione (art.14), alla prevenzione sanitaria (art.35), ad un ricorso giurisdizionale effettivo ed imparziale (art.47) e il divieto della schiavitù e del lavoro forzato, della tortura o dei trattamenti inumani e degradanti (art.4), il diritto alla parità di trattamento dei lavoratori stranieri con quelli comunitari (art.15), divieto di espulsione verso uno Stato in cui c’è il rischio di essere sottoposto a pena di morte o a trattamenti inumani o degradanti (art. 19).
[4] Questa direttiva è stata recepita dall’Italia solamente il 6 luglio 2012 attraverso un decreto legislativo. Nonostante ciò l’ASGI (Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione) ha evidenziato alcune gravi lacune nell’attuazione delle disposizioni della direttiva stessa.
[5] Sondaggio consultabile online a questo link.
[6] Per approfondire il contenuto degli PPR consultare questo link:
[7] Documento consultabile su questo link.
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