Magazine Politica

L’evoluzione della convivenza inter-confessionale nell’area: prospettive e risvolti geopolitici

Creato il 25 gennaio 2013 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR
L’evoluzione della convivenza inter-confessionale nell’area: prospettive e risvolti geopolitici

Lunedì 10 dicembre 2012 Giacomo Guarini, direttore del programma di ricerca “Dialogo di civiltà” dell’IsAG, è intervenuto al convegno Dopo le “Primavere arabe”: il nuovo quadro del Vicino Oriente, svoltosi presso la sede del CASD presso Palazzo Salviati, Roma. Proponiamo di seguito il testo della sua relazione.

 
Dovendo trattare della convivenza inter-confessionale nell’area, alla luce dei grandi cambiamenti avuti luogo a partire dalla fine del 2010, proverò a presentare un’agile e purtroppo incompleta panoramica di due questioni aperte, per le quali lo scoppio delle ‘Primavere’ pone sicuramente sfide ed interrogativi ancora maggiori di quelli pre-esistenti alle stesse:

  1. La vita civile delle minoranze cristiane;
  2. L’incontro e la dialettica fra le ‘macro-confessioni’ sciita e sunnita1.

 
Simili sfide ed interrogativi non si riflettono solo sullo stretto piano della convivenza inter-culturale, sulle cui problematiche è principalmente incentrato il programma “Dialogo di Civiltà” dell’IsAG, ma si presentano gravide di conseguenze anche sul piano geopolitico, al quale sono volte in ultimo luogo le analisi ed attività di questo stesso Istituto.

1)   Le minoranze cristiane

Minoranze cristiane sono presenti in tutta l’area, in concentrazioni ovviamente estremamente variabili. La questione delle ‘Primavere’ ha sicuramente toccato in maniera viva i cristiani autoctoni e per la verità simili fenomeni sono stati accompagnati principalmente da preoccupazione dei cristiani stessi per il futuro delle proprie comunità. Nella misura in cui le Primavere sono andate sempre più profilandosi come “Risveglio Islamico”2, con un trionfo diffuso di formazioni politiche strettamente legate all’Islam politico, e soprattutto alla Fratellanza Musulmana, le perplessità diffuse fra le comunità cristiane sono andate aumentando. Possiamo soffermarci al riguardo su due importanti esempi dell’area, l’Egitto e la Siria, caratterizzati entrambi da una presenza cristiana relativamente alta in percentuale (attorno al 10% della popolazione in entrambi i casi) epperò marcati da ben evidenti differenze e specificità.

Egitto: in Egitto la vittoria di una formazione politica legata alla Fratellanza Musulmana ha sicuramente destato una certa preoccupazione presso i cristiani locali. Sotto il regime di Mubarak la situazione non era certamente rosea: le comunità cristiane lamentavano una non sufficiente tutela istituzionale nei loro riguardi, se non quasi a tratti una indiretta persecuzione, in particolare per quel che riguardava l’omessa tutela dei cristiani dagli attacchi di soggetti e formazioni estremiste, nonché la trascuratezza nella persecuzione legale degli stessi. Tuttavia, è indubbio che l’ispirazione ‘laica’ dell’assetto politico-istituzionale improntato da Mubarak poteva rappresentare per certi aspetti una garanzia di tutela rispetto alle istanze radicali di certe formazioni islamiste presenti nel paese. La caduta del regime nel 2011 è stata salutata con entusiasmo anche da parte di esponenti delle comunità cristiane e, d’altro canto, gli stessi esponenti politici dell’emergente Fratellanza Musulmana, con un atteggiamento politico che dimostrava abilità, pragmatismo ed apertura, manifestavano sicura disponibilità al coinvolgimento dei cristiani – nonché delle donne – nei nuovi spazi politici e nel futuro istituzionale del Paese.

Non sono mancati tuttavia gravi episodi di violenza successivi alla destituzione del vecchio regime, favoriti evidentemente anche dagli assetti instabili nella transizione politica del paese, mentre al momento, come si può immaginare, una grande incognita è data dall’atto d’imperio col quale il Presidente Morsi ha di fatto reso insindacabili le decisioni presidenziali. I segnali recenti dell’ulteriore incrinarsi della fiducia sono eloquenti. Si hanno chiare manifestazioni di sospetto e disagio delle comunità cristiane, a partire dai loro leader, di fronte a questa ed altre scelte presidenziali, che si sommano a segnali foschi nella vita civile e politica del paese: dalla reintroduzione del velo femminile in numerosi comparti della vita pubblica (non obbligatoria, ma spesso percepita come possibile apripista a future prescrizioni vincolanti) da un lato, alla pressione degli elementi più oltranzisti della Fratellanza, o della galassia che definiremmo “fondamentalista”, volte ad una decisa islamizzazione della vita civile del Paese, che possa trovare anche riconoscimento costituzionale.

Siria: per quel che riguarda la situazione siriana, è emersa anche dalla stampa occidentale – pur se con discrezione e solo dopo diversi mesi dall’inizio della crisi – una forte preoccupazione di larghi strati della popolazione civile nei riguardi della destabilizzazione conseguente alla rivolta anti-governativa nel paese. La preoccupazione ha caratterizzato anche, e con particolare evidenza, la minoranza cristiana, dalla quale sono giunte con certa decisione denunce sull’escalation di violenze che hanno insanguinato il paese – spesso ad opera di bande armate non identificate – e che più che portare ad una definitiva soluzione politica delle contraddizioni emerse in Siria, non hanno fatto che esacerbare gli animi e predisporre il terreno ad un possibile scontro settario. La presenza, inoltre, fra i militanti anti-governativi di esponenti legati all’Islam radicale ha contribuito a temere per il futuro di un’ipotetica Siria post-baathista, nella quale possa venir meno la stabilità della convivenza inter-confessionale a causa di una possibile caratterizzazione in senso islamista delle istituzioni e delle future forze politiche dominanti. Qui in Siria, dove la crisi non è evidentemente ancora approdata ad una soluzione, la posizione diffusa presso i fedeli e le istituzioni ecclesiastiche è stata quella della ricerca di una sorta di ‘terza via’ fra un assoluto mantenimento dello status quo istituzionale e civile da un lato ed un brusco e violento regime change dall’altro. E’ una posizione che si è concretizzata nell’espressione Mussalaha, che vuol dire in arabo “riconciliazione” e che propone l’incontro pacifico delle diverse istanze della società civile, anche quelle critiche verso il regime, che però siano caratterizzate dalla pregiudiziale dell’abbandono della violenza e dal rifiuto dell’ingerenza straniera, come basi per un dialogo costruttivo fra tutte le componenti della società e finalizzato proprio alla piena autodeterminazione del popolo siriano.

Volendo dare uno sguardo d’insieme alla questione dei cristiani nell’area, anche oltre i due esempi appena accennati, emerge dunque preoccupazione per una possibile affermazione di forze politiche in diversa forma e misura ispirate all’Islam radicale. Non solo Egitto e Siria, dunque, ma possiamo pensare anche ad esempio all’influenza che certe formazioni islamiste possono avere nella ‘nuova’ Libia, in Marocco, nella stessa Algeria, dove le ultime elezioni hanno per ora confermato lo status quo, ma le forze d’opposizione aumentano di peso. Come già accennato, si teme che una ‘islamizzazione’ della vita civile di questi paesi possa portare a condizioni difficili delle minoranze quali quella cristiana e sicuramente questo resta un punto ancora indecifrabile e suscettibile di molteplici ipotetiche evoluzioni. Nell’affrontare il problema, non dobbiamo dimenticare che la scelta strategica del blocco occidentale a guida statunitense è stata sostanzialmente quella di appoggiare nell’area movimenti d’ispirazione islamista, pur talora con non pochi timori e riserve, e assistiamo ormai da mesi all’affermarsi di questi nell’ambito delle nuove élite del rinnovato quadro mediterraneo; una scelta densa di profonde, interessanti e – per molti versi – incognite implicazioni sul piano strategico. Cosa dire degli effetti che simile scelta potrà avere nella vita delle minoranze in questi paesi? Sicuramente da un lato abbiamo assistito ad un importante ruolo di mediazione in questo senso da parte dei nuovi leader affermatisi. Penserei in primo luogo a certe importanti scelte politiche di Morsi in Egitto e Gannouchi in Tunisia, volte a dare l’idea di portare avanti sul piano politico un Islam moderato e ben disposto ad aperture in senso pluralista. E tuttavia ciò non allontana la preoccupazione delle minoranze che certe scelte possano essere maquillage politico dettato dalla necessità contingente di guadagnare fiducia (e, pragmaticamente, prestiti ed altri vantaggi) dall’Occidente e dalle istituzioni internazionali, salvo poi assistere ad un sostanziale peggioramento della condizioni di convivenza civile. D’altro canto, se è vero che il blocco occidentale potrà far pressione su simili questioni legate ai diritti umani, è anche vero che potrà essere ben disposto a soprassedere su certe problematiche per fini di convenienza politica.

2) Sciiti e sunniti

Un fattore di crisi potenziale, al momento ben lungi dall’essersi espresso pienamente nell’area, è quello del rapporto sunniti-sciiti. Tale macro-divisione confessionale in seno all’Islam ha visto nella storia alti e bassi di conflittualità, soprattutto a causa di fattori politici contingenti. Possiamo dunque chiederci quanto questa divisione confessionale abbia effetti diretti nei sommovimenti che hanno attraversato l’area, e quali potrebbero essere i futuri risvolti legati alla stessa. Anzitutto è in questa sede necessario, molto più che per la precedente questione, tenere a mente la competizione politica regionale che si inserisce entro la macro-suddivisione confessionale. Non è infatti una esemplificazione eccessiva il rilevare come alcuni fra i principali momenti di frizione nell’area possano ricollegarsi – pur indirettamente – alla competizione politica fra i principali paesi ispirati, anche sul piano istituzionale, a stretta marcatura confessionale sunnita da un lato (Arabia Saudita e Qatar in testa, pur in certe divergenze strategiche), ed invece il bastione espressione del confessionalismo sciita – l’Iran – dall’altro. Partendo dalle crisi più note dell’area, possiamo notare come l’appoggio iraniano all’alleato governo siriano sia stato pieno, e come invece Arabia Saudita e Qatar abbiano appoggiato con decisione su più fronti i ribelli, spesso risultando – anche da quello che emergeva dalla stampa occidentale – come patrocinatori di gruppi armati di militanti del sunnismo radicale. Ed un discorso interessante in tal senso è quello dei sommovimenti in aree a forte presenza sciita di paesi a guida marcatamente sunnita; sommovimenti e proteste spesso repressi nel sangue, dei quali poco si è saputo e molto vi sarebbe da dire, anche proprio riguardo alla loro scarsa rilevanza mediatica. A tal proposito, potremmo rapidamente far cenno ai moti del Bahrayn, repressi anche grazie al sostegno materiale non indifferente (invio di carri armati) da parte saudita, o ancora alla repressione entro la stessa Arabia Saudita di quei moti nell’area a forte presenza sciita nel paese, in territori fra l’altro strategicamente rilevanti a causa delle risorse energetiche ivi presenti. In questi due scenari presi ad esempio, parrebbe comunque emergere una realtà di protesta legata anzitutto alla discriminazione e all’esclusione sociale della componente sciita della popolazione, più che non una lotta guidata da motivi religiosi: i movimenti di protesta sarebbero mossi in sostanza non tanto da rivendicazioni legittimiste ispirate ad ideologia confessionalistica, quanto da istanze legate al riconoscimento di diritti civili e sociali.

Un interrogativo molto delicato su questa questione è: quanto le frizioni inter-confessionali legate alla dialettica sunniti-sciiti sono suscettibili di indefinita estensione nell’area? Al momento parrebbe che elementi di tensione come quelli portati ad esempio siano ben lungi da causare esteso contagio ma simile fosca ipotesi non è da escludere, in particolare nel caso in cui dovessero irrompere nell’area eventi dalla sconvolgente portata, quali – in primis – un intervento militare contro l’Iran, roccaforte dello sciismo. E’ per questo che su una simile questione restano molto importanti le decisioni e le strategie che verranno portate avanti dal blocco occidentale a guida statunitense. In verità diversi segnali farebbero pensare, nonostante l’impossibilità di asserzioni certe al riguardo, che gli USA non desiderino affatto lanciarsi in un’avventura così pericolosa, incerta e gravosa come quella di un impegno bellico contro l’Iran, nonostante le pressioni dell’alleato israeliano al riguardo. E questo tanto più dopo la riconferma elettorale di Obama ed il conseguente sviluppo di una strategia tesa a concentrare sforzi ed operatività nell’area dell’Asia-Pacifico più che nel Vicino e Medio Oriente. Anzi, per quanto ancor più incerto a potersi affermare, da diversi segnali parrebbe che con grande discrezione la strategia USA possa finanche arrivare a thinking about the unthinkable, pensare l’impensabile, per usare il titolo di un articolo di qualche tempo fa dell’analista statunitense George Friedman, il quale proprio in un periodo di grande tensione USA-Iran, scriveva dell’opportunità e dei vantaggi per gli USA di cercare un accomodamento con l’Iran e di volgere verso una strategia tesa al bilanciamento – ed alla reciproca autolimitazione – di diverse potenze regionali (Iran, Turchia ed Arabia Saudita), escludendo invece interventi di hard power, nocivi in primis per gli stessi interessi di potenza statunitensi. Che sia o meno vero o probabile quanto appena sopra prospettato, resta il fatto che un simile approccio soft degli USA in Medio Oriente eviterebbe un potenziale deflagrare incontrollabile di conflitti inter-statuali, inter-religiosi ed inter-etnici nella regione, la qual cosa non vuol dire ovviamente pensare ad un utopistico annullamento delle frizioni e conflittualità in un’area così delicata da questo punto di vista, ma quantomeno ad un freno che impedisca forme di destabilizzazione radicali ed estese che giungano a minare irrimediabilmente la convivenza ed il dialogo inter-culturale nell’area.

Conclusioni: il ruolo italiano ed europeo nel “dialogo di civiltà” con il Vicino Oriente

Un’ultima considerazione sull’Europa e sul nostro paese, l’Italia. Abbiamo infatti parlato della grande potenza USA, alla testa del blocco occidentale, di cui fanno evidentemente parte anche l’Europa e l’Italia. E’ forse importante sottolineare come, non foss’altro che per un fattore meramente geografico, il nostro paese e l’Europa hanno un interesse immediato e diretto alla stabilità di un’area contigua come quella in esame, laddove per gli USA – da considerarsi sul piano geopolitico come “isola” remota fra due Oceani – un simile interesse può anche limitarsi e relativizzarsi in funzione di determinate finalità strategiche. In altre parole, l’interesse europeo ad assetti politici stabili ed allo stesso tempo rispondenti alle esigenze civili e sociali della popolazione dell’area è ancor più diretto ed improcastinabile che per gli USA, che pure hanno evidenti interessi nell’area. Per questo l’Europa, e l’Italia in particolare, dovrebbero essere in grado non solo di ritagliarsi spazi autonomi di intervento politico, ma anche farsi promotrici di una sottile politica culturale improntata sul dialogo e sull’incontro – invece che sulla frattura e sullo scontro – fra le diverse sponde del Mediterraneo, con grandi benefici potenziali per tutte le parti coinvolte.


Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :