[Articolo pubblicato sulla Webzine Sul Romanzo n. 2/2012]
E se ne ricorderà chi scrive (mi si conceda l’inciso d’autobiografia intellettuale), che al precoce incontro con la figura e le opere dello scrittore siciliano deve il rivelarsi d’un destino: il primo più luminoso oroscopo sulla natura di una vocazione, per una certa idea di stile e ancor più di critica letteraria (d’allora vissuta, sempre più consapevolmente, come avventura del riconoscersi).
Nato in una finisterre di transito, come fu per Calvino, anche per Consolo, nella particolare geografia del luogo d’origine («non si nasce in un luogo impunemente», amava dire) possiamo trovare iscritta l’effige d’un ibrido magnifico destino, all’esatto incrocio tra un Oriente fatto di natura, tentazione dell’idillio, malìa del canto poetico (della sirena dell’assoluto) e un Occidente intriso di relativo, dove forte è il contatto con la storia, i grandi mutamenti sociali; e, perciò, forte l’urgenza di ripristinarne la linea (non corrotta da imposture) del racconto.
Di qui, dalla metabolizzazione e superamento, entro una straordinaria originale sintesi, di due contrapposte tensioni, la barocca e l’illuminista, nasce la particolare maniera consoliana. Debitrice, in egual misura, tanto verso la lezione sciasciana d’una ininterrotta perorazione sul rapporto tra storia e potere quanto verso quella (non meno forte) del lirico puro e barocco derivata dal poeta Lucio Piccolo (cugino del più noto Giuseppe Tomasi di Lampedusa), al quale non a caso dedicherà la favola teatrale Lunaria (1985), la più radicale contestazione del Nostro al romanzesco tradizionale, in favore dell’esaltazione, appunto, del potere, sempre risorgente, della poesia.
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