di Franz Krauspenhaar
Ritorno col pensiero all’unica partita che vidi all’estero: in Germania, nell’agosto del 79, al Rheinstadion di Duesseldorf. Giocava la squadra di casa, il Fortuna, contro un’altra squadra tedesca di cui non ricordo nulla. Insieme ad amici tedeschi tifosi del Fortuna facevo finta di tifare, in quel bello stadio da mondiale. Si spengono i riflettori. Mi sembra di essere caduto sul set di un film di Fritz Lang. In un angolo, un attore corpulento: è Raymond Burr in “Blue Gardenia”. Parte l’omonima canzone di Nat King Cole. Ecco, dal Rheinstadion si spengono luci trentennali. Tutta quella gente, ben più grande di me, magari è già morta, o è lunga distesa e ferita in una pensione malata. Si spengono i riflettori su antiche partite. Le luci diventano fioche come nella cantina allargata di via Palermo, dove si giocava la pelota. Un bianco e nero s’insinua e copre lentamente tutto, è quello de “La vita agra” di Lizzani, dei giocatori baschi. Come erano baschi, tutti, i giocatori di calcio dell’Athletic Bilbao che avevano battuto due anni prima – siamo nel marzo 77 – il mio Milan nell’andata dei quarti di UEFA. Un 3 a 0 sonoro e rotondo nel catino rovente di Bilbao. Difficilissimo recuperare. E invece a San Siro, in un pomeriggio di sciopero generale, sotto un pallido sole che a poco a poco era diventato come rosso dall’emozione, il Milan, incitato da noi tifosi, aveva ribaltato il punteggio, fino al 4 a 0. Una rimonta esaltante, che avevo seguito col cuore battente in gola, mettendoci una passione sfrenata nell’incitamento, come ad aiutare i beniamini nella spinta propulsiva. Uno dei momenti di calcio più voluttuosi, quella rimonta quasi incredibile. Li avevamo messi sotto, i baschi. Baschi tutti, certificati, come i giocatori di pelota, perché in quella squadra potevano giocare solo indigeni, in quella specie di nazionale basca che era anche club della città più importante della regione-paese. Era una cosa che approvavo ferocemente, come ho sempre approvato l’autodiscrimine, l’autodeterminazione, l’orgoglio delle proprie origini. Ora tutte quelle belle impalcature della mente le ho perse da un pezzo per strada. La vita è difficile, bisogna semplificarla. E comunque, sul 4 a 0, a pochi minuti dal termine, era ormai fatta. Così il grande portiere Ricky Albertosi, come era suo costume, s’era piazzato ben oltre il termine della sua area, come per fumarsi una sigaretta in relax, mentre il Milan ancora, ribaldo, attaccava. Bastò un contropiede veloce e puntuto dei baschi, mai domi. Le maglie a strisce verticali biancorosse vennero sotto in pattuglia con pochi passaggi di prima intenzione, il pallone finì all’ala sinistra, un certo Rojo, che mise dentro agevolmente, mentre Albertosi tentava di recuperare una posizione utile in porta. La doccia gelida di una sconfitta che non posso dire immeritata, ma comunque inattesa. Eravamo ormai certi di avercela fatta, di avere ribaltato il destino. Ed ecco l’idiozia del grande campione, il suo triste senso di superiorità, che lo punisce. Perché il calcio ha bisogno come poche altre cose di umiltà nella grandezza, di commistione di generi antitetici, come la spudoratezza e invece, attaccata in piena adesione, la prudenza. Ricordo la delusione cocente dei tifosi, il lancio di oggetti in campo, mentre un tramonto tristissimo scendeva velocemente, e alle prime ombre della sera noi tutti scendevamo le rampe del grande stadio col passo mesto e certe volte rabbioso, spezzato dalle poche urla non convinte, perché era passata tutta la forza, anche di protestare ed indignarsi contro qualcosa che non si poteva vedere né sentire, il destino.
[Foto: l'Athletic Bilbao nel 1977.]