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L’illuminista illustrato

Creato il 08 settembre 2010 da Fabry2010

Pedullà costruisce libri da abitare. L’ultimo, Il vecchio che avanza. Scampoli illustrati di politica e letteratura degli Anni Zero, edito alla fine del ’9 dalla cooperativa romana Ponte Sisto (la stessa cui il critico calabrese affida la stampa delle due riviste da lui fondate all’inizio del millennio, «L’illuminista» e «Il caffè illustrato»), non tradisce le aspettative: tutto è minuziosamente e sapientemente architettato perché l’ospite possa visitare con ogni conforto stanze logge recessi senza mai accusare la benché minima stanchezza. Via, dunque, le pedantesche note al piede (respingerebbero); bando alle obese referenze bibliografiche (annoierebbero); nessuna pietà per gl’indici analitici (desterebbero sospetti). Ecco, invece, le illustrazioni didascaliche a tinte fumettisticamente sgargianti (l’occhio non vuole forse la sua parte?); le gustose macchie di colore mutuate da uno degli auctores del Nostro, D’Arrigo: «lassotto», «laddentro», «il visto cogli occhi», «il visto cogli occhi della mente»; il sermo usitatus et simplex mescidato di registri incompatibili, dall’aulico all’informale, non escluso il turpiloquiale, perché bisogna rivolgersi al lettore medio con l’affabilità e la naturalezza d’un compagno di strada, e del lettore medio riprodurre lingua e pensiero con artifici mimetici da mortificare il più scafato scrittore espressionista («capi politici che hanno testa ma non hanno coglioni»; «lettori cui non gliene potrebbe fregar di meno delle sorti della letteratura»; «parole deformate da orrore e incazzatura», «Perelà ha fatto vedere come va il mondo. Nel migliore dei casi va a puttane»).

Ecco, seducentissime, le inflessioni tra journal intime e affabulazione:

Giuseppe Berto aveva letto la mia recensione come una stroncatura del Male oscuro. S’aspettava un consenso più pieno, e invece ci lesse troppe riserve: insomma non bastò il sì a molti episodi che mi erano piaciuti e che mi avevano assai divertito.

Sul grande tavolo s’erano accumulati oltre duecento nuovi arrivati, i libri pervenutimi negli ultimi tre mesi. C’era narrativa e poesia italiana e straniera, saggistica di ogni disciplina, classici antichi e moderni, ristampe in edizione economica. Cominci a preoccuparti quando rammenti perché te li hanno mandati: per essere letti, recensiti o premiati.

Da quarantotto anni ricomincio ogni ‘nuovo’ anno (settembre, andiamo) come se dovessi aspettarmi chissà cosa dalla lettura di romanzi, poesie e saggi. Perciò quando mi ha chiamato l’infaticabile Bonina e, implacabile mi ha detto: «Si riparte, mentre noi riposavamo sono usciti altri libri», ho sollevato le mie quattro robuste ossa e mi son messo al lavoro.

Ecco esclamazioni ed esortazioni talmente rapinose da infiammare il più secco dei cuori: «Non finiremmo mai di porre quesiti a uno scrittore [Tommaso Landolfi] che si sente sempre minacciato»; «Non si finisce mai di porre domande su questo autore (Elio Vittorini)»; «Non finiremo mai di esaltare il coraggio lungimirante con cui (Vittorini) ha difeso l’autonomia della letteratura»; «sarà una favola accompagnare lo scrittore di Siracusa nel vagabondaggio ariostesco delle Città del mondo»; «Sfogliando il vecchio “Avanti!”, mi vedo venire incontro autori dimenticati cui dovremmo gratitudine per le invenzioni linguistiche, per gli scatti della fantasia, per gli sconfinamenti nei dialetti, per il rifornimento intellettuale nelle scienze fisiche e umane, per le deviazioni dalla norma e per ogni straniamento. Che voglia di capire, quale tensione morale, che tenacia nel respingere la ripetizione!»; «Leggete Soldati e Gadda, ma se dovete scegliere uno solo, ebbene è il secondo il narratore che va sempre messo per primo».

Ed ecco, infine, le metafore più accese, condite da sapidi, esilaranti calembour: «Scrittori, attenti al tessuto. Ma non basterà avere stoffa»; «Bianciardi pure nei romanzi ottocenteschi sprizza salute, anche se la sua frase ha spesso la pressione alta»; «L’attuale è una narrativa di buone maniere, ma al mercato vanno forte le brutte. Più che nuove lingue, linguacce»; «Non ci sono più salite, non ci sono scalatori, ci sono solo velocisti. Ciclisti che non reggono la corsa a tappe in cui eccellono gli scalatori, coloro che faticano sulle cime come certi narratori che scrivono in salita una pagina al giorno»; «Non date la colpa alle carie, se non tollerate i romanzi che bevete: non è questione di denti. Chiedetelo piuttosto alle meningi. Sono troppo pigre. Sollecitatele, spremetele. Nel loro caso è salute il dolore, non il torpore».

Pur appartenendo, come del resto tutti i libri di Pedullà, all’inviso genere della silloge recensoria, Il vecchio che avanza («potrebbe essere questo papa che spinge indietro il mondo» o «la tendenza ad affidare a persone oltremodo ricche la guida delle nazioni democratiche, come succedeva secoli fa nelle Signorie» o ancora «la vecchia teoria che vuole morta la critica militante») vale assai più della somma dei suoi addendi, non solo perché l’ottimo lavoro revisorio e di raccordo fa sì che nessun individuo risenta della sede giornalistica cui inizialmente destinato, ma perché vi si parla di tutto con eguale émpito e perizia: cultura, politica, religione, sociologia, costume, persino piccola editoria («Aiutiamoli a sopravvivere, diamogli carta bianca! Nel senso che va bene tutto quello che pubblicano? Ebbene no. Nel senso che lo Stato farebbe bene ad aiutarli con leggi che calmierino il prezzo della carta utile a pubblicare libri che spesso sono culturalmente più utili di quelli stampati dai grandi editori»); e poi critica accademica, critica militante, critica della critica, poesia, e soprattutto narrativa, la vera passione di Pedullà: dai futuristi a Sciascia, da Savinio a Campanile, da Landolfi a Vittorini, da Brancati a Fenoglio, da Bianciardi a Berto, a D’Arrigo, a Malerba, a Moravia, a Bonaviri, inclusi tre nomi ignoti al grande pubblico come La Cava, D’Arzo e Strati (sul cui talento il canone troppo lasco del critico scommette forse più del lecito).

Siamo insomma al cospetto d’un sontuoso affresco della cultura italiana (non solo dell’ultimo decennio, come vuole il sottotitolo, ma) contemporanea, godibile persino nei luoghi che costringono al dissenso. Ci si chiede, ad esempio, come sia possibile inclinare per il modo anziché per il cosa, «per le miscele linguistiche degli espressionisti, per il fantastico più surreale, per la comicità più assurda e per l’esperimento radicale che trova quello che ancora nessuno ha e sa», e al contempo attentarsi a definire uno scrivente orbo di sostanza ideale e di coscienza linguistica quale Franco Cordelli «un narratore tra i più interessanti, i più assillanti e i più interrogativi da trent’anni in qua». Il fatto è che Pedullà, com’egli stesso scrive di Landolfi, «suscita domande ma non ama dare risposte»: il lettore che volesse toccare con mano la fondatezza di asserti del tipo «Bianciardi possedeva anche un’altra virtù gaddiana: la capacità di deformazione comica del reale dalla quale si ricava conoscenza» o «L’italiano di Moravia nomina come nessuno sa fare le cose» o «il protagonista del Serpente di Malerba […] è personaggio di cui nei decenni è aumentato sempre il valore», resterebbe, come si dice, con l’acquolina in bocca.

Da «Fermenti», XXXIX 2010, n. 235.



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