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L'importanza del Kirghizistan nella geostrategia dell'Asia Centrale
Creato il 21 giugno 2011 da Bloglobal @bloglobal_opidi Giuseppe Dentice
Sono passati sei anni dalla guerra civile in corso nel Paese e nonostante la grave paralisi politica, economica e sociale, il Kirghizistan sembra non conoscere ancora pace. In questi sei anni il Paese ha conosciuto un'innumerevole serie di eventi. Innanzitutto, è diventato la prima repubblica parlamentare dell’Asia Centrale grazie al referendum costituzionale dello scorso anno che ha confermato alla presidenza della Repubblica ex-sovietica la signora Rosa Otunbayeva. In secondo luogo, il Paese ha conosciuto due rivoluzioni (2005 e 2010) che hanno portato alla fuga due Presidenti della Repubblica (Askar Akayev a Mosca, Kurmanbek Bakiyev a Minsk), considerati filo-russi. Infine, gli scontri di questi anni tra kirghisi e uzbeki (solo 470 morti negli scontri del giugno 2010, di cui il 74% era di etnia uzbeka) hanno spianato la strada ad un conflitto etnico. Nel Paese, infatti, sono presenti più di 80 gruppi etnici: in particolare, uzbeki, tagiki e russi sono le comunità più numerose. Oggi, Bishkek rischia di essere la più grande area di instabilità nello spazio post sovietico. Tuttavia, se la politica non riuscirà a risolvere i gravi problemi che attanagliano il Paese, il rischio di subire la stessa sorte della Somalia, ossia divenire un failed state, potrebbe essere ogni giorno sempre più concreto.
L'instabilità kirghiza trova le sue radici fin dall'ascesa politica di Stalin, il quale si sforzò di creare uno Stato totalitario e ultracentralizzato, orientato verso la supremazia culturale ed etnica dell'elemento russo. Quando il Kirghizistan ottenne l'indipendenza nel 1991, il Paese si trovò ad affrontare il problema della maggioranza etnica kirghiza in relazione al forte elemento russo e alle sue relazioni con la ex madre patria. I kirghizi costituivano appena il 52% della popolazione e le minoranze reclamavano una maggiore rappresentanza nei posti di governo. Trascorsi due decenni in bilico tra incidenti e sanguinose rivoluzioni, ancora oggi il Paese è alle prese con gli stessi problemi. Dal Natale 2010 a Bishkek è in carica il nuovo governo di orientamento socialista guidato da Almazbek Atambayev che è dovuto scendere a compromessi con la compagine dei nazionalisti di Ata Zhurt di Bakiyev, ancora forte nel sud del Paese, e i centristi di Respublika guidati dall’oligarca Omurbek Babanov. Alla presidenza, invece, c’è Rosa Otunbayeva, una signora indipendente che gode della fiducia della Comunità Internazionale e anche di Russia e Cina, ma che ha il compito improbo di traghettare il Kirghizistan verso una transizione pacifica e in grado di garantire una ripresa economica al Paese. E' chiaro intuire che la frammentazione politica derivante da interessi e storie diverse rendono il Kirghizistan impelagato una crisi senza via di uscita apparente.
Il Kirghizistan è il Paese più povero nell'area dell'ex blocco sovietico e secondo numerosi indicatori internazionali, quali Transparency International o Freedom House, risulta essere in fondo a tutte le classifiche internazionali, da quelle che misurano gli standard politici, civili e sociali, a quelle che prendono in considerazione gli indicatori economici e finanziari. E' sprovvisto di minerali, gas o qualsivoglia ricchezza del sottosuolo che possa far decollare l'economia nazionale. Ad ogni modo il Paese è strategicamente importantissimo, grazie alla posizione geografica favorevole che gli consente di essere al centro di un intero e immenso continente e ponte naturale tra il Medio Oriente, il Caucaso e la Cina. Infatti, la partita vera è quella che si sta giocando tra le varie superpotenze – Russia, Stati Uniti e Cina in primis – che tramite il controllo strategico dell'Asia Centrale e del Caucaso stanno dando vita ad una corsa per assicurarsi un’influenza su regioni ricche di risorse e attraverso cui si snodano gasdotti e oleodotti diretti verso il Mediterraneo e il Pacifico.
Il Paese centroasiatico detiene un piccolo primato: è l'unico Paese al mondo ad ospitare contemporaneamente una base militare russa ed una statunitense. Gli Stati Uniti finanziano la base militare di Manas, usata come appoggio per le operazioni in Afghanistan. La Russia, invece, che ha una base a Kant, ha tutto l'interesse a tener legata a sè la piccola repubblica attraverso l’Unione Euroasiatica (Eurasec) per motivi geostrategici. Dunque, per le due superpotenze il Kirghizistan è un Paese strategicamente importante e da difendere contro ogni tentativo di destabilizzazione. Da difendere anche insieme, ora che tra Casa Bianca e Cremlino si è deciso di cooperare in alcune aree di interesse comune. Stati Uniti e Russia, però, non sono gli unici attori interessati al Paese: la Cina – che controlla l'intero comparto aurifero kirghiso – ha interessi notevoli nell'area centrasiatica sia in funzione interna, sia in termini di espansione dei propri mercati a livello regionale. Anche l’UE monitora con molto interesse la situazione kirghisa e i conflitti etnici che la stanno insanguinando. L'interesse di Bruxelles, in realtà, più che alla stabilità dell'area, mira al gas turkmeno e kazako, importantissimi mercati ancora poco sfruttati e utili alla UE per diversificare la propria dipendenza energetica dal gas russo.
Ma perché un Paese come il Kirghizistan è così importante? Bishkek risulta essere così importante dal punto di vista degli equilibri regionali, perché l'intera area centroasiatica ed ex sovietica sembra essere un unico grande blocco indivisibile che parte dal Kazakhstan e arriva in Tagikistan. I problemi kirghizi sono rilevanti anche negli altri Paesi in questione e, pertanto, un’esplosione a Bishkek potrebbe comportare un grande focolaio regionale che coinvolga le ex repubbliche sovietiche. Il rischio kirghizo non risiede tanto in una situazione di guerra civile – peraltro già in corso nelle regioni meridionali di Osh e Jalalabad e le enclaves di Sokh e Shakhimardan tra kirghizi e uzbeki – quanto piuttosto quello di un conflitto regionale che veda impegnate le ex repubbliche sovietiche dell'Uzbekistan e del Kirghizistan (e forse del Tagikistan) ognuna con pezzi di propria popolazione all'interno dei confini dell'altra. Ma chi ha interesse a far divampare il Kirghizistan, e, forse, l'Asia Centrale? Di certo non le superpotenze troppo impegnate nell'area a “combattersi” per affermare la propria supremazia. Semmai si potrebbero individuare due possibilità: la prima è che le forze legate a Bakiyev, che ha molto séguito proprio nel Sud del Paese, infiammino il Kirghizistan per costringere la Otambaeva a cedere e a permettere il ritorno dell'ex Presidente in patria, anche con il benestare russo; l'altra risiede nel radicalismo islamico, molto diffuso nell'area in quanto tutte le ex repubbliche sovietiche sono a maggioranza musulmana e quasi al confine con l'Afghanistan. Le debolezze istituzionali di Bishkek si riversano irrimediabilmente nei vicini. Soprattutto quest'ultima possibilità sarebbe mal digerita sia dalla Russia, sia dagli USA, sia dalla Cina. La destabilizzazione di Bishkek metterebbe a rischio l'intera regione e i loro interessi. Tutte e tre sarebbero, semmai, interessate a bloccare i progetti espansionistici dei fondamentalisti islamici locali e dei Taliban afghani, alla continua ricerca di alleanze per le proprie “battaglie”. In realtà, le due possibilità sono legate a doppio filo e il rischio di un allargamento della destabilizzazione a livello regionale è un lusso che nessuna potenza, al momento, può permettersi.
Gli interessi in gioco sono tanti e molto intricati tra loro. Il rischio concreto è che il Kirghizistan possa diventare in futuro un'altra Cecenia o un altro Kosovo e se si vogliono evitare presagi così pericolosi sarà necessaria la massima cooperazione tra le potenze e tra le ex repubbliche sovietiche affinché il Paese venga garantito dalla violenza e guidato verso una transizione meno cruenta possibile. I coinvolgimenti in progetti di cooperazione regionale o di un'area di libero scambio, come già in parte sta avvenendo con l'Eurasec o con l'Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, sarebbero un passo importante al fine di creare una cooperazione politica ed economica per l'intera regione altamente frammentata in varie identità tribali molto forti che negli anni hanno solo prodotto instabilità.
* Giuseppe Dentice è Dottore in Scienze Internazionali (Università di Siena)
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