Un penoso articolo di Ettore Livini su Repubblica dell’1 marzo 2012, ‘I Navajo sul piede di guerra. Nel mirino il brand dei jeans’, mi ha incuriosito e spinto a verificare la notizia. Dell’articolo di Livini mi limiterò a dire che, come di consueto per Repubblica e in genere la stampa italiana, a un balordo linguaggio da fumetto tipo dissotterrare l’ascia di guerra, si associa un loffio paternalismo e una sciatta mancanza di verifica della notizia. Alla fine del breve (per fortuna) articolo Livini nomina il generale Custer che avrebbe combattuto contro i Navajo. Bastava guardare su Wikipedia per sapere che mai ciò è accaduto, dato che Custer operò in un’area che dista dalla riserva Navajo quando la Lombardia dalla Danimarca.
Assai più informato è il sito dell’Huffington Post Canada o quello che riporta il lancio dell’Associated Press. Di fatto la Nazione Navajo ha fatto causa alla Urban Outfitters perché tolga il nome Navajo dai suoi prodotti, dato che violerebbe l’Indian Arts and Crafts Act federale, che rende illegale vendere oggetti d’arte o artigianato che diano la falsa impressione che siano stati fabbricati da indiani quando ciò non è vero. La tribù, che è un’entità corporata, ha almeno dieci marchi registrati con il nome Navajo che coprono calzature, abiti, vendite al dettaglio online, prodotti per la casa e tessuti. Secondo i funzionari tribali la causa serve a proteggere quello che credono, e con ragione, sia uno dei capitali tribali di maggior valore. Detto in altri termini, il nome Navajo fa parte di quello che Bourdieu chiama il capitale culturale e che le tribù più ammanicate politicamente sono riuscite in gran parte a proteggere grazie all’Indian Arts and Crafts Act del 1990. Infatti, per cadere sotto la protezione di questa legge federale, si deve essere una tribù riconosciuta o un individuo che appartiene a una tribù riconosciuta. Ne sono esclusi una gran quantità di artisti indiani che per le vicende della vita non fanno più parte di tribù riconosciute, perché appartengono a quella categoria, gli indiani ‘urbani’ (che ormai comprende il 70% degli indiani), che abitano nelle metropoli, che possono anche godere di servizi statali e federali per gli indiani, ma che hanno perso la ‘cittadinanza tribale’ e quindi sono esclusi dall’Indian Arts and Crafts Act.
In realtà, quello che i Navajo ‘vendono’ è ‘autenticità’, ma oggi a chi compra un oggetto di vestiario che si chiama Navajo non interessa l’autenticità, ma la verosimiglianza, non interessa tanto comprare qualcosa fabbricato da un indiano ‘autenticato’, quanto quella che MacCannell (1976) chiama l’aura a proposito del Grand Canyon. Oppure, per dirla alla Baudrillard (1998) che definisce la riserva Navajo e il Grand Canyon ‘giganteschi mucchi di segni’, uno compra il ‘segno’ più che l’oggetto. Così come i bar Tex-Mex che si chiamano Magico Mexico o Cactus Charly a Parigi vendono ‘Arizona dreaming’, così catene di fast food che si chiamano Godfather’s Pizza (la Pizza del Padrino) vendono ‘Italiano’ anche se sono di proprietà di un Afro-Americano. Dato che l’acquirente compra quella che Baudrillard chiama ‘America astrale’ fatta di autostrade vuote nel deserto e motel dalle insegne pittoresche, è comprensibile che nella montagna di denaro che questo Sogno Americano muove ci siano aziende come Urban Outfitters (l’ultima di una serie) che cerchino di lucrare sul ‘verosimile’. I Navajo e altre tribù di volta in volta implicate, si oppongono per difendere il loro capitale culturale e cercano di patentare ‘l’autentico’ congelato nel tempo e nello spazio e ridotto a logo. Ma il logo è per sua natura riproducibile all’infinito. Solo il primo esemplare è ‘autentico’, le altre sono copie che, per loro natura, non possono essere ‘autentiche’.
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