C’è una qualità, una capacità, che nel grande circo della politica passa spesso in secondo piano e, cionondimeno, personalmente ritengo essenziale – nonché, per certi versi, simbolica. È il saper reagire, da parte di un candidato, a una sconfitta elettorale con compostezza, senso di responsabilità verso la propria formazione politica, dignità e consapevolezza del proprio risultato: in altre parole, il saper perdere.
Saper affrontare una sconfitta e accettarlo, metabolizzare l’epilogo di una consultazione elettorale in senso costruttivo è un vantaggio doppio: da una parte aiuta a far fronte all’esito delle urne, difficile o direttamente tragico che sia; dall’altra pone le basi pratiche e di rapporto con gli elettori per eventuali vittorie future – è un po’ il discorso alla base di un post che ho scritto su Studio qualche mese fa, pur applicato in un altro ambito.
Le primarie del Partito democratico si sono appena concluse. Com’è noto, sono state stravinte da Matteo Renzi. Eppure, soprattutto nel suo sfidante Pippo Civati questa qualità, quella del sapere perdere, ad oggi è sembrata sostanzialmente assente. A scrutinio ancora in atto, ha commentato con un velenoso «cambiamento? Sarà: io in tv vedo Fassino» (che nel frattempo era collegato su un canale che trasmetteva la diretta della consultazione e commentava i primi dati). Il 9 dicembre – nemmeno ventiquattr’ore dopo l’ufficializzazione dei risultati delle primarie – Civati scriveva sul suo blog «nella mia candidatura non ha creduto quasi nessuno dell’establishment, lo schema era polarizzato, c’era già un vincitore indiscusso, tutti si sono posizionati altrove e molti commentatori hanno trascorso settimane a fare della mia proposta una caricatura», molti paragrafi prima di un fugace «conosco i miei limiti e riconosco i tanti errori che ho fatto e ciò che è mancato», senza poi presentare nemmeno un esempio dei suddetti non ascrivibile ad agenti esterni.
Ma è nei giorni successivi, fino ad arrivare a oggi, che il candidato ha dato il meglio: «Non preoccupatevi. Qui non molla nessuno, nessuno si adegua, nessuno cambierà. I gattopardi rovesciati (quelli che non cambiano, per cambiare le cose) sono tutti schierati e sono cento volte più di prima» e «chi ha votato Renzi per andare a votare non sarà soddisfattissimo, perché mi sembra che Letta chiederà una fiducia fino al 2015» (11 dicembre, data del sì del PD al governo Letta); «non mi arrendo personalmente, ma il fatto è che non si arrende la sinistra, che ci sarà sempre e che dobbiamo solo tornare a rappresentare con più orgoglio e convinzione» (15 dicembre, giorno dell’insediamento del nuovo segretario, evidentemente non considerato parte della sinistra); «sono stato accusato per mesi di essere troppo attento al M5s e sconsideratamente aperto al confronto con i suoi rappresentanti: vedo che nel Pd la linea è cambiata» (ieri, a commento dell’offensiva #Beppefirmaqui lanciata da Renzi per attaccare il Movimento 5 stelle). Su Facebook Civati ha pubblicato e pubblica tuttora cose simili:
Questi estratti – insieme a molte altre prese di posizione, come quella contenuta nell‘intervista all’Unità o la linea della pagina Facebook del deputato monzese, che ieri ha attirato dure critiche anche fra i suoi sostenitori – restituiscono l’immagine di una sfida Civati-Renzi ancora in atto, più che di un confronto conclusosi con un risultato netto e ineludibile. Chi lo fa notare, in queste ore – sono fra quelli – è inevitabilmente tacciato di velleità autoritarie, con arditi riferimenti al centralismo democratico e volontà di mettere a tacere i dissidenti. Ma non è, ovviamente, questo il senso dell’obiezione.
La realtà è che si può dissentire, proporre un’alternativa e portare avanti le proprie battaglie anche dentro il partito, ma con correttezza e nei tempi e modi giusti. Le immagini qui sopra, le battute al vetriolo e l’atteggiamento divisivo scelto da Civati non aiutano nessuno – né il partito, né gli elettori. A voler essere precisi, peraltro, per mesi è stato lo stesso Civati a sostenere che la sua mozione, e lui in prima persona, sarebbero stati la scelta giusta per occuparsi del partito – “non un semplice trampolino di lancio verso il governo”.
Non c’è bisogno di indicare i grandi concession speech americani (ve lo ricordate McCain che dice «he will be my President» nel 2008?) o il discorso di David Miliband al suo Labour nel 2010 come pietre di paragone in questo ambito. Restiamo pure in Italia.
L’anno scorso a perdere fu Renzi, in un contesto di regole in cui si erano svolte le primarie piuttosto confuso e dopo aver incassato diversi colpi sotto la cintura (vedi Camusso che invitò a non votarlo a urne aperte, ma non soltanto). Renzi prese la parola e disse semplicemente «ho perso» facendo l’in bocca al lupo al suo avversario, in un discorso agli antipodi da quanto appena elencato. Giovanni Sasso, dell’agenzia Proforma – che ha curato l’ultima campagna di Renzi – qualche settimana fa ha commentato così quell’intervento.
Ricordo che un anno fa, questo discorso cambiò completamente la mia percezione di Matteo Renzi.
È stata la prima volta in cui ho ascoltato un politico dire, pubblicamente, convintamente, “ho perso”. Sì perché qui non dice “ho fatto un buon risultato”, oppure “non ho vinto”, oppure “considerate le condizioni non potevo fare di più”. No. Dice proprio: “ho perso”. Un discorso che andrebbe insegnato. Anche perché solo chi sa perdere, poi, sa anche vincere.
Per l’appunto.
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