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L’impotenza

Creato il 27 marzo 2012 da Lundici @lundici_it

Ogni mattina comincio la giornata cercando di intuire dalla luce che filtra in camera se fuori c’è il sole. Un piccolo rito quotidiano, del tutto involontario, consiste nell’aprire gli occhi sempre alla stessa ora dell’alba.
Mi dà sicurezza alzarmi presto, molto prima del suono della sveglia, e vedere che il mondo là fuori sta ancora dormendo. L’aria che entra dalla finestra aperta è sempre fresca. Sento che sono padrona della mia vita e del mio tempo, sono attivissima e per qualche ora proverò solo grande, grandissima voglia di fare.

Ovviamente so che quello spicchio di giornata, solo mio e di nessun altro, è impastato di illusione. So che dopo il caffè, il riassetto di casa, il letto rifatto e qualche lavatrice stesa, uscirò dal limbo della mia beata solitudine e verrò in contatto con il resto del mondo. Il resto del mondo vuol dire anche il quotidiano che andrò a comprare appena uscita di casa e le cui pagine schiaffeggeranno l’illusione della mia alba. Ed ecco che la vita riappare meschina ad ogni latitudine e in ogni momento. Ed ecco che svanisce la mia onnipotenza per lasciar posto al senso di impotenza, tra tutte la sensazione più frustrante.

Una domenica lascio l’euro e venti all’edicolante e prima di risalire in macchina butto l’occhio sui titoli. “Kandahar. Militare Usa fa strage di civili. Tra le vittime, nove sono bambini”. Si tratta di domenica 11 marzo 2012. Sarebbe stato un soldato americano coi nervi a pezzi a fare la strage. Se ripenso a cosa ho provato nel leggere tutti gli articoli che si sono susseguiti su questa vicenda anche nei giorni successivi, mi viene in mente solo una forte rabbia e un grandissimo senso di impotenza, appunto.

Le diciassette persone trucidate dentro le loro case sono state massacrate e bruciate da un soldato americano che fa comodo a tutti definire folle. Tra loro c’erano nove bambini e delle donne, che successivamente è emerso essere state violentate prima che scannate. Se ne deduce che il militare non fosse da solo a compiere quello scempio. Particolare tra l’altro emerso dalle indagini afghane e dalle testimonianze degli abitanti del luogo.

La mia impotenza consiste nel non poter far nulla per l’accaduto, non sapere come protestare per tanta crudeltà, non trovare un termine adatto al disprezzo che provo per il sergente Robert Bales, questo il nome dell’assassino, e per gran parte dell’esercito americano e della guerra in generale. Intanto inizierei a usare i termini giusti nell’analisi delle cose. Un omicida che premedita non è un folle, ma un assassino. Esattamente come il pedofilo non è un malato, ma un porco criminale. O chi ammazza una donna non è un omicida passionale, ma un assassino con l’aggravante del considerarsi padrone di un’altra persona. Il senso di impotenza non cala nemmeno ribellandomi alle formule fisse che i giornali usano per classificare gli eventi. Poi penso al senso di impotenza quello vero, sentito sulla propria pelle, che devono aver provato i parenti delle vittime di Kandahar, gli altri abitanti del villaggio, il popolo afghano intero che sopporta l’esercito americano dal 2001.

L’impotenza

Un Afghano piange mostrando il corpo di una vittima della strage di Kandahar

Come questa ci sono moltissime altre notizie che ogni giorno mi riportano coi piedi per terra e mi fanno sentire impotente. Sono un’impotente collaterale però, una che legge quello che accade nel mondo e può fare ben poco, ma che in molti casi non vive sulla sua pelle la frustrazione, quella vera e propria, derivata dall’abuso e dall’ingiustizia. Sono una privilegiata insomma.

La violenza genera impotenza in chi la subisce. E l’impotenza cosa genera? La frustrazione derivante da questa condizione innescherà verosimilmente dei meccanismi di autodifesa. E questi in cosa si tradurranno? Emarginazione? Rabbia? Fondamentalismi? E tutto quello che l’impotenza genera non potrebbe generare  prima o poi altra violenza?

Soprattutto quando la violenza proviene da chi ha un’uniforme, il senso di impotenza di chi la subisce aumenta esponenzialmente. Sulla vicenda del massacro di Kandahar è stato scritto che gli abitanti del villaggio in cui si è compiuta la carneficina, si consideravano fortunati rispetto ad altri afghani, proprio perché la base americana era stanziata nelle loro vicinanze. Le divise, secondo il senso comune, dovrebbero infondere sicurezza e rispetto della legalità, ma non occorre essere troppo smaliziati per sapere che spesso sono un paravento dietro cui si nasconde del marciume. I bambini crescono nell’idea che i poliziotti o i carabinieri siano l’incarnazione del bene e del rispetto della legalità. A quale bimbo non è stato insegnato di fidarsi delle forze dell’ordine? Che senso di impotenza infliggeremmo poi, ai nostri figli, se anche loro sapessero quello che sono in grado di fare certe persone da dietro una divisa?

L’impotenza

Da "Quella notte alla Diaz" di Christian Mirra, ed. Guanda graphic

A chi non vengono in mente i fatti del G8 di Genova di quel lontano luglio 2001? Come spiegarlo a un figlio che chiede cosa successe tra le mura della caserma di Bolzaneto, o quelle della scuola Diaz? Si potrebbe partire dalla lettura di una favola triste, ma vera, per esempio. Mi riferisco alla piccola graphic novel di Christian Mirra, “Quella notte alla Diaz”. E da lì, sperare di non cadere nella retorica, mantenere un po’ di lucidità nel racconto dei fatti, ma soprattutto non farsi prendere dal senso di impotenza nel ripensare alla conclusione del processo, che, sette anni dopo le violenze da parte delle forze dell’ordine, ha visto solo tredici condanne e ben sedici assoluzioni tra i vertici della polizia.

Ci sono volte in cui l’impotenza non è la diretta conseguenza di una violenza. Può esistere invece come senso di frustrazione per un danno subìto, ad esempio. E chi ha subito un danno sa di poter sopravvivere al senso di impotenza che ne deriva. In qualche modo il meccanismo di autodifesa, che porta al superamento di quella condizione, si traduce in una timida accettazione del danno subìto e in un’autoemarginazione.

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"Il danno" di Josephine Hart, ed. Feltrinelli

E’ quanto emerge dalla lettura de “Il danno”, intenso romanzo della scrittrice irlandese Josephine Hart, scomparsa lo scorso anno.

L’impotenza

"Il danno" di Louis Malle, film tratto dall'omonimo romanzo

Dal suo libro è stato tratto anche l’omonimo film, diretto da Louis Malle, con Jeremy Irons e Juliette Binoche.

C’è un altro romanzo, al momento in vetta alla classifica dei libri più venduti in Italia, che mette in risalto lo stato d’impotenza del protagonista, vittima in tenera età di un danno profondo, derivato dalla perdita improvvisa della figura materna. Si tratta di “Fai bei sogni” dello scrittore e giornalista Massimo Gramellini.

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"Fai bei sogni" di Massimo Gramellini, ed. Longanesi

Anche in questo caso il senso di impotenza generato dal danno subìto si trasforma in autoemarginazione da molte situazioni della vita. Il racconto autobiografico degli eventi assume i toni del romanzo di formazione, con ostacoli e dure verità del passato del protagonista, che in un percorso autoanalitico lo faranno giungere all’accettazione del suo danno e ad una maturazione, grazie a cui ha potuto stendere e pubblicare la sua storia.

Un’altra reazione all’impotenza può essere l’uso della fantasia nella ricerca di alternative al dolore. O nella ricerca di un capro espiatorio per sentirsi meno impotenti di fronte ai presunti danni subìti. Nel primo caso mi viene in mente Oskar, il novenne newyorkese protagonista di “Molto forte, incredibilmente vicino” di Jonathan Safran Foer.

L’impotenza

"Molto forte, incredibilmente vicino" di Jonathan Safran Foer, ed. Guanda

Oskar si rifugia nella sua fantasia per crearsi l’alternativa al senso di vuoto e impotenza, derivatogli dalla perdita del padre nell’attacco alle Torri Gemelle del 2001. In qualche modo il ragazzino depista la sua sofferenza cercando di darsi un’utilità nel mondo, attraverso la risoluzione di fitti misteri nati dalla sua fantasia.

Sicuramente i bambini hanno molte più risorse degli adulti, proprio per la non accettazione di una condizione di impotenza. Loro non sanno che si può sopravvivere a quel senso di vuoto e cercano in tutti i modi di crearsi un’alternativa, finché realizzeranno che non sempre è possibile. E forse allora non saranno più bambini, se non anagraficamente.

L’impotenza

Claudio Bisio impersonò a teatro il protagonista della saga dei Malaussène di Daniel Pennac

Nel secondo caso il grande maestro che ci ha insegnato a fare del capro espiatorio un’arte non può essere che lui, Daniel Pennac, che attraverso il suo personaggio Benjamin Malaussène, nella saga della famiglia più originale di Parigi, mostra forze e debolezze dell’uomo comune e speciale allo stesso tempo. Ci può essere qualcuno più frustrato e impotente di chi per professione fa il capro espiatorio all’ufficio reclami di un grande magazzino prima, e di una casa editrice dopo? La risposta chiaramente è sì, dal momento che Benjamin viene pagato per farlo. La sua impotenza è fittizia, serve solo a imbrogliare il cliente che si presenta all’ufficio reclami e convincerlo, attraverso la compassione suscitata per l’apparente condizione d’impotenza da capro espiatorio, a non esporre denuncia. “Lei ha un vizio raro, Malaussène: compatisce”, gli viene riconosciuto come merito al suo lavoro.

L’impotenza, quella vera, credo sia una delle sensazioni più terribili da provare. A volte reagiamo con violenza alla frustrazione, a volte reagiamo emarginandoci, altre volte protestando. E la sensazione più brutta è quando sentiamo che la protesta non viene ascoltata da chi potrebbe modificare la situazione che ci rende così impotenti. Credo che sia per questo che esistano i sindacati.

Generalmente la mia giornata si conclude molto presto, non sono mai stata una nottambula. E alla compagnia dei libri che mi conducono verso il sonno, preferisco solo quella dei pochi amici veri che ho, con cui ormai riesco a bere una birra o un caffè in occasioni davvero rare, ma è proprio in quelle rare occasioni che il mio senso di impotenza per abitare lontano da loro, si allevia per un po’.

E quando poso gli occhiali sul comodino dopo aver chiuso il libro e spengo la luce, mi abbandono con fiducia alla notte, sapendo che l’indomani mi aspetta di nuovo l’abbraccio dell’alba. A sentirmi impotente ci penserò dopo le 8 del mattino.


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