Riprendendo definizioni non nuove e certo ben conosciute non solo negli ambiti grammaticali ed etimologici, riaffermo qui che il concetto di “lungimirante” è da riferirsi, nella sua accezione di attributo alla persona, a colui che tenta di dare forma quanto più ipoteticamente vicina alla realtà di ciò che potrà accadere. Non necessariamente limitandosi ad un campo specifico, ma a tutto lo scibile ed il vivere umano.
Ad esso, per estensione e quale vetta dell’iperbole non solo estetica ma anche speculativa si può accomunare quell’idea ancor più sfumata e sfuggente nei suoi contorni e pertanto nella sua identità, del “visionario”, ovvero colui che intende fare del “lungimirante”, un povero inetto, un artigiano del tempo e del progresso, un personaggio di strette e … corte vedute che quasi a stento arrivi oltre il proprio naso. Non a caso, seppur con ambiti di applicazione che sono con i secoli cambiati, tale figura è stata sempre presente nelle vicende antropologiche. Una volta la si conosceva più con il nome di “indovino” al quale si attribuivano spesso facoltà comunicative con possessori della verità non necessariamente umani. Non gli si attribuivano dunque né particolare intelligenza né particolare fantasia, solo la capacità di essere in comunicazione e, pertanto, di riportare una presunta verità.

Per quanto accomunati dall’anelare il futuro, dalla necessità di dargli una forma, di vederlo come compimento o, almeno, frutto di un programma e di una preparazione, le due figure (il lungimirante ed il visionario) godono di quella proprietà che stabilisce come tanto progressivamente più lontana dalla realtà o approssimata sia ogni ipotesi che intenda raffigurare o immaginare un futuro, tanto più lo stesso è lontano del tempo. Sono direttamente proporzionali questi elementi per l’ovvio - forse - aumentare del margine d’errore e per la fallacia insita nella statistica che però, in quanto scienza, al pari della fisica, ha avuto la bella idea di affidarsi alle variabili per affondare ogni problema irrisolto. In ogni caso, scopo della variabile è cercare di codificare tutti quegli elementi che rispetto ad un determinato processo, possono (appunto) variare, pertanto la loro presenza non fa altro che suggellare l’impossibilità a determinare quadri certi, dandoci invece consistenza unicamente delle possibili variazioni senza certezza di risultato. E se nella scienza tale fenomeno porta poi ad un cambiamento di risultanze che colpisce unicamente la teoria senza fare spesso male alcuno alla pratica che invece ne può trarre indicazione e giovamento, nei confronti del futuro, visto che non vi è prova d’appello, il peso specifico di ogni variabile può risultare determinante di un buono o di un pessimo risultato che, all’atto dell’accadimento, diviene inappellabile sublimandosi nel presente.L'uso dunque delle variabili anche se capace di configurarci con maggior precisione la quantità dei risultati possibili, di fatto risulta poi fuorviante nei confronti del fine ultimo, ovvero la definizione del futuro, così come l'attenzione eccessiva ai modi del comunicare fa spesso dimenticare la qualità della comunicazione. Ogni discorso sul metodo deve, o dovrebbe almeno, non perder di vista la materia che di esso si nutre e non renderla generico ospite del metodo stesso.

Ma se lasciamo in secondo piano questo loro ruolo in realtà deludente e limitante, che li assimila forse più a imbonitori, a ciarlatani, figure che oggi molto e senza dubbio troppo spesso identifichiamo nei politici, viene da domandarsi cosa ne sia stato dei programmatori del futuro. Di coloro che erano in grado di dare una veste all’idea ed allo scenario che si sarebbe potuto verificare a distanza di venti, trenta anni, di un secolo addirittura.
Pare che di costoro non ve ne sia stato più bisogno alcuno, lasciando queste proiezioni che erano ingrediente fondamentale a rendere grande un progetto ed una idea, in mano a inesatte apps del sapere umano quali la statistica, la proiezione, la casistica. Tutti strumenti che sono stati in grado di farci interpellare il futuro, solo che tale e tanta è diventata la presenza e l’importanza delle variabili, che i risultati sono più subordinati al verificarsi di un sempre maggior numero di conditio sine qua non, che non alla forza di un progetto, di una idea, di quell’apporto appunto del lungimirante, che in base all’osservazione dell’oggi ed al tesoro fatto sul passato prossimo e remoto, era in grado di prefigurare il futuro, almeno il prossimo venturo.

Da questo panorama di sempre più cosciente incertezza, ovvero colei che in realtà ha generato il concetto di variabile, dissezionando i grandi scenari, le grandi ipotesi, in tante piccole enclaves di accadimenti possibili e paventabili, si estranea soltanto una unica branca che osa, imperterrita, a fornire cifre, condizioni, futuri certi quantunque poderosamente condizionati: la finanza. Al dilatarsi degli impegni nel tempo, aumentano le clausole contrattuali ma, nel complesso, l’unica cosa che sembra sopravvivere a questa ecatombe del possibilismo e delle sue emanazioni verso il futuro, è il debito (mutui cinquantennali, ecc. ecc.), le cui variabili vengono azzerate con l’utilizzo dello strumento assicurativo, il quale a sua volta viene riassicurato fino a che il debito diventerà creditore di se stesso, non chiudendo il cerchio ma scoprendo la verità. Ma questa, per quanto scoppiata nel lontanissimo 2008, è storia recente, vissuta da poco e dai risultati che, secondo canoni novecenteschi, dovrebbero essere freschi e conosciuti. Ma dall’intoppo generato dalle conseguenze e dall’osservazione del presente nella quale ci ostiniamo, non siamo stati in grado di far riemergere il genio. Quello di una spinta nuova e rinnovata verso il futuro. Anzi, tanto abbiamo reso complesso il presente che non sappiamo più come esorcizzarlo, come venirne a capo.
Sembra dunque divenuto quasi impossibile pro-muoversi verso il futuro, quello vero. Se ne è svilita tutta la portata benefica, quella forza che ce lo faceva intravedere come un obiettivo da raggiungere, come un rinnovarsi degli appuntamenti con l’evoluzione, come un rendere compiuto il senso del bello e non come un intelligibile accadimento del tempo.

Il nuovo concetto medio di futuro raggiunge così oggi al massimo la soglia dei cinque anni. La pianificazione si contrae, e con essa i tempi di valutazione delle proprie possibilità. Il presente, per quanto sfuggente, riacquista un valore che aveva perduto e che per secoli, quanto meno, era finito tra le invocazioni filosofiche di coloro che, forse per uno spiccato senso conservatore, prediligevano il conosciuto territorio dell’oggi all’ipotetico sentiero di un futuro che poteva diventare accidentato. Personaggi che ogni tanto salmodiavano un carpe diem o invitavano a cogliere l’attimo fuggente o ancora, più sfacciatamente, ricordavano “… Quant'è bella giovinezza, che si fugge tuttavia! Chi vuol essere lieto, sia: del doman non v'è certezza…”.
Ed allora per riempire questo incolmabile (così talvolta sembra apparire) vuoto di valori, ci siamo resi il presente più complesso, più effervescente anche, ma senza dubbio più difficile da vivere con quella contemporaneità che gli è dovuta per essere tale. E’ sopravvissuto il passato perché un luogo di riferimento era necessario, un ambiente con il quale confrontare i nuovi codici di comunicazione e di interpretazione. Il futuro invece si è fatto tanto più lontano, tanto più appannaggio del “visionario” che, per renderlo terreno praticabile per il nuovo “lungimirante” abbiamo dovuto avvicinarlo ed accorciarlo. Praticamente ci siamo portati l’orizzonte in camera. Oltre quella parete si entra nel territorio sconosciuto della “visione” e, in ogni caso, sulla stessa è calato molto l’interesse. Tutti colpiti da un senso di agorafobia filosofica che ci preclude la spinta verso la progettazione di media e lunga scadenza.


Appunto ......






