Parlare, oggi, di Postmoderno, seppur con scarse e modeste pretese, comporta una grossa responsabilità, per almeno due - quelli principali - ordini di motivi. Il primo, tipico del dibattito stesso sul Postmoderno, risiede nella necessità, da parte di chi scrive, di rendere chiaro ciò che ancora non è del tutto chiaro, semplice qualcosa che trova invece della sovraesposizione alla complessità uno dei suoi nodi cruciali, dritto e scorrevole ciò che invece tende per sua stessa natura a essere contorto e controverso, uniforme qualcosa che si vanta di rimanere difforme e irriducibile. In più, parlare di Postmoderno, significa allo stesso tempo parlare di una tendenza artistica e letteraria, di un orientamento filosofico, di (questo secondo molti) una condizione storica, ma anche di un ordine politico, culturale e soprattutto sociale. Significa, per farla più breve, scendere all’interno dei problemi, culturali e sociologici, che hanno caratterizzato l’epoca contemporanea e seguire alcune delle vie attraverso cui si è cercato di trovare - o dare - delle risposte.
Il secondo fattore di responsabilità invece è molto meno intrinseco alla materia di cui si tratta e legato invece a eventi recenti che hanno, d’improvviso, riacceso e rianimato la questione sul Postmoderno. Chi parla di Postmoderno oggi, non può non tenere conto dell’acclamatissimo e a quanto pare inappellabile trapasso di quest’ultimo. Secondo il giornalista britannico Edward Docx, che la scorsa estate ha pubblicato sul «Prospect» un articolo dal titolo La morte del Postmodernismo (Postmodernim is dead), l’infelice decesso ha anche una data precisa: il 24 Settembre 2011, il giorno in cui, presso il Victoria & Albert Museum di Londra, è stata inaugurata una mostra retrospettiva, intitolata Postmodernism: Style and Subversion 1970-1990. L'assunto di base è semplice: guardare retrospettivamente qualcosa significa che quel qualcosa si è concluso.
Da qualche mese il dibattito, soprattutto di natura filosofica, è stato aperto anche sulle pagine del nostro «Alfabeta2»; Tramonto del Postmoderno, Nuovo realismo, Realismo Negativo, con brillanti interventi di Omar Calabrese, Carlo Formenti, Alberto Abruzzese, Maurizio Ferraris, Fausto Curi e anche, con la solita disarmante brillantezza, di Umberto Eco.
C’è da dire che la notizia in effetti non ha colto proprio di sorpresa. Da anni ormai il Postmoderno non godeva di ottima salute, sfiancato dalle innumerevoli e spietate Cassandre che ne profetizzavano la fine imminente, sottoposto ai continui e determinati attacchi dei suoi più accaniti detrattori.
In realtà, al di là dell’ironia, che quando si parla di Postmoderno gioca sempre in casa, dietro i proclami e gli strilli giornalistici, si nasconde una questione molto più seria e culturalmente affascinante. È ormai evidente che la filosofia, l’arte e la letteratura postmoderne dopo aver trovato, soprattutto nei paesi anglosassoni, ampio spazio durante gli ultimi trent’anni, e portato all’interno del nostro mondo «liquido», complesso, mediatico, compresso, globalizzato, post-industrializzato, terziarizzato, volubile e volatile, un potente flusso innovativo - magari non rivoluzionario, ma di certo innovativo, impastato di un acuto e demistificatorio relativismo, di cinismo disincantato, di ironia liberatrice, di tendenza al gioco, al miscuglio rigenerante tra finzione e realtà, cultura alta e bassa -, giunti ormai al giro di boa del millennio, vivano la necessità di trovare la forza di guardare indietro a se stessi, fare i conti con il presente e ricostituirsi, per potersi riadattare alle nuove trasformazioni.
Per la critica italiana sembra ormai scontato che questo riassestamento debba protendere verso un ritorno al passato. La convinzione è che nella contrapposizione tra Habermas e Lyotard, avesse ragione il primo; che il progetto razionale e razionalistico della modernità (ovvero l'epoca che precede la postmodernità) non si è mai arrestato e non ha mai fallito, si è solo sospeso per un po’, si è sollazzato per tirare il fiato. Possiamo ancora ritrovare e riprendere quello che abbiamo lasciato. Il concetto si traduce in due ordini di discorso, una di origine filosofica, l'altra artistico-culturale.
Per quanto riguarda il primo, il filosofo Maurizio Ferraris, ex allievo di Gianni Vattimo e convinto sostenitore del «pensiero debole» vattimiano - estrema conseguenza del postmodernismo filosofico - è tornato, negli ultimi anni, definitivamente e coerentemente sui suoi passi, pubblicando di recente il saggio Manifesto del nuovo realismo (Laterza, 2012), che sembra infine rigettare le contorsioni filosofiche postmoderne, il decostruzionismo antilogocentrico, il rifiuto delle metanarrazioni, della stabilità della ragione, il rifiuto delle verità assolute, che rigetta la massima nietzschiana del «non ci sono fatti ma solo interpretazioni», per rivendicare il valore e il primato della realtà, del solido nucleo ontologico - forse potremmo azzardare anche della Verità - e del bisogno di questa di riguadagnare spazio a sbracciate, per riacquisire un ruolo di primo piano nelle disquisizioni filosofiche del nuovo millennio.
Dal punto di vista letterario possiamo prendere come caso esemplare la raccolta di saggi di Romano Luperini, La fine del Postmoderno (Guida, 2008). La tesi che troviamo in apertura è che in questi impraticabili anni duemila, marchiati in origine dall’11 Settembre 2001, noi cittadini globali abbiamo disperato bisogno di ritrovare certezze e stabilità, appigli sicuri, lontani dalle pratiche del pastiche, dell’intertestualità, della giocosità e della metanarratività postmoderne. Gli intellettuali, gli artisti e i letterati non possono più abiurare, neanche per scherzo, rinunciando apparentemente al compito di battistrada, all’interno del contesto sociale che affrontiamo; devono tornare in prima fila. E sembra proprio che l’Italia dei Gomorra e degli Strega di Antonio Pennacchi e Edoardo Nesi, dei romanzi parasociali, dei polpettoni pseudostoriografici, delle impensabili agio-biografie terroristiche e settantine, stia correndo lungo una strada più o meno adiacente a quella tracciata dal professor Luperini.
A questo punto, dopo aver preso atto della situazione generale, a chi voglia ancora avventurarsi a parlare di Postmoderno non resta che sfruttare almeno l'occasione. Se è chiaro e palese che la perentorietà con cui si parla di fine del Postmoderno ha più un valore esorcistico-evocatico che non valore teorico, dal momento che nessun periodo storico e nessun movimento artistico-filosofico hanno inizio né fine se non a livello puramente convenzionale, è altrettanto evidente che oggi stiamo assistendo, a livello generale, a una riconfigurazione e un affievolirsi delle pratiche e delle tendenze più vicine al Postmoderno. L'occasione che ci si para dunque davanti è quella di parlare di Postmoderno nel momento della sua fine apparente, dopo la sua morte fittizia, aggirando così finalmente uno dei maggiori ostacoli e fattori di incertezza per la critica degli ultimi anni; parte dell'indeterminatezza di cui è impregnato il dibattito sul Postmoderno, come tende a far notare il celebre critico americano Ihab Hassan, è stata da sempre, in buona parte, legata alla distanza prospettica con cui si è guardato ad esso, alla necessità di catturare il fenomeno sempre sul suo asse sincronico e quindi sempre in continua evoluzione e trasformazione. Fingere che il Postmoderno sia davvero finito ci potrebbe forse consentire di trarre le prime conclusioni e di abbozzare un quadro meno torbido, più limpido.
È con questo spirito allora che, negli spazi del blog Sul Romanzo, ci lanceremo nella rischiosa impresa, provando a chiarire, ad esempio, cosa significa il termine Postmoderno, in cosa differiscono i termini Postmodernità, Postmoderno e Postmodernismo, a quali teorie filosofico-artistiche si collegano e soprattutto, quali sono gli obiettivi che, in questi anni, esse hanno cercato di raggiungere.
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