Tra le ragioni che hanno indotto Standard & Poor’s ad abbassare, il 9 luglio, il rating dell’Italia c’è la mancanza di attuazione delle riforme strutturali. Ma se l’ampiezza dell’attuale recessione è dovuta alla mancanza di domanda, le politiche dal lato dell’offerta non sortiranno nessun effetto sull’economia nel breve termine
di Agenor da Sbilanciamoci.info
Il 9 luglio Standard and Poor’s ha ridotto il rating dell’Italia sui suoi titoli di stato a lungo termine da BBB+ a BBB con outlook negativo, ossia ci sono il 30% di possibilità che il rating venga ulteriormente abbassato nel corso del 2013-2014. È una mossa molto grave che situa i titoli di stato italiani appena due categorie di rating sopra il giudizio di titoli spazzatura. In caso si dovesse arrivare in futuro a tale valutazione, questa avrebbe degli effetti gravissimi sugli interessi sul debito che l’Italia si troverebbe a fronteggiare. Inoltre ci sarebbero anche ripercussioni sul valore dei titoli nel portafoglio delle banche e sulla possibilità di offrire quest’ultimi come garanzia per operazioni di rifinanziamento. Tutto ciò peserebbe ancor di più sulla capacità/volontà del sistema bancario di concedere finanziamenti all’economia.
Standard and Poor’s giustifica questa sua decisione sulla base di tre motivazioni principali. In primis nota come le prospettive di crescita del Pil per il 2013 risultino peggiorate rispetto a qualche mese fa. Il Pil italiano viaggia, infatti, verso un -1.9% in rapporto all’1.4% previsto in precedenza dall’agenzia di rating americana.
Altro motivo di preoccupazione riguarda gli obiettivi di bilancio per il 2013, considerati fortemente a rischio per via dell’aggravarsi della recessione e per le misure di sospensione dell’Imu e dell’aumento di un punto percentuale di Iva.
Una terza ragione si riferisce al fatto che non vengono riscontrati progressi nell’attuazione di quelle riforme che, a suo parere, permetterebbero di superare le rigidità nel mercato del lavoro e in quello dei prodotti. S&P, in linea con il mainstream della teoria economica, considera queste rigidità come la principale zavorra che incide sulle capacità di crescita potenziale della nostra economia.
L’analisi di S&P in relazione alle misure che sarebbero necessarie per evitare ulteriori downgrade lascia alquanto perplessi per la sua incapacità di comprendere le vere cause dell’attuale recessione e i trade-off fra le diverse misure di politica economica. Tutto viene analizzato a compartimenti stagni con un unico grande mantra: l’esigenza di adottare riforme strutturali come solo e chiaro obiettivo/ cura/ antidoto / miraggio per uscire dalla crisi che attanaglia l’Europa e l’Italia da più di cinque anni.
L’insuccesso delle politiche che si stanno attuando in Grecia, Spagna e Portogallo, tutti paesi a cui è stato “gentilmente consigliato” di adottare un vasto piano di riforme strutturali, confermano l’inefficacia di questa strategia. Nel caso dell’Italia però si nota una totale incoerenza fra quella che viene considerata come la principale debolezza della nostra economia, le politiche adottate in questi due anni e le ragioni dell’ultimo downgrade.
Nella seconda metà del 2011, quando i mercati iniziarono a vendere massicciamente i titoli di stato italiani, facendo schizzare in alto lo spread, la Bce e il governo Berlusconi decisero che, per riacquisire credibilità, eravamo obbligati ad anticipare al 2013 il pareggio di bilancio corretto per il ciclo. Questo significava aggiungere alla cura di austerity che l’Italia aveva già intrapreso con discreto successo, un altro enorme set di tagli, pari a circa 76 miliardi fino al 2013. Molti economisti e commentatori, meno succubi della teoria mainstream, ci misero in guardia sul fatto che l’enorme austerity richiesta avrebbe fatto crollare il Pil e avrebbe ridotto solo marginalmente il deficit di bilancio. Questo scenario si è verificato pienamente. Nel 2012 il Pil è crollato del 2.4% mentre nel 2013, come già accennato, le previsioni parlano di una contrazione più o meno della stessa entità. A fronte di questo disastro, il deficit di bilancio si riduce solamente dal 3.9% del 2011 a un livello intorno al 3% o probabilmente superiore, nel 2013.
Ai critici si oppose la solita “Tina” che gridava a gran voce, spalleggiata dal governo dei tecnici: “There Is No Alternative”. In realtà oltre ad un numero di alternative che esulano dall’ortodossia mainstream e che per questo non vengono considerate, neanche di fronte agli insuccessi della stessa, altre strade si potevano trovare. Un cammino diverso si poteva intraprendere persino mantenendo la rotta dell’ortodossia, giusto adottando una dose in meno di estremismo. Se davvero S&P e quindi gli umori del mercato vedono nelle riforme strutturali l’unica uscita dalla crisi, la strategia volta ad accelerare notevolmente il percorso di riduzione del deficit, rispetto a quanto concordato con le autorità europee, non aveva nessun senso. Sarebbe stato più coerente mantenere la politica restrittiva già stabilita per focalizzarsi su alcune riforme (quelle supportate dai dati), in modo da riacquisire fiducia sui mercati. Anche se non saremmo comunque usciti dalla crisi, che ha radici ben più profonde, almeno avremmo evitato la profonda recessione che sta mettendo in ginocchio i lavoratori e l’intero apparato produttivo del nostro paese.
Inoltre, poiché è ormai chiaro anche agli economisti ortodossi, sebbene cerchino in tutti i modi di nasconderlo, che l’austerità ha effetti depressivi sulla crescita, è inspiegabile il fatto che S&P da un lato ci punisca per una contrazione del Pil superiore alle attese e dall’altro continui a chiedere nuove misure per rincorrere gli obiettivi di bilancio. Se il mainstream dell’economia vuole seguire la sua strategia fino alla fine, che almeno lo faccia in maniera leggermente più coerente, mostrando di imparare qualcosa dagli errori già commessi. In sintesi, se le riforme strutturali sono il mantra salvifico da recitare, almeno si allenti la presa dell’austerità.
Bisogna tuttavia chiarire la reale portata di queste fantomatiche riforme. Alcune di esse (non tutte) potrebbero aumentare solo di qualche decimo di punto il potenziale di crescita dell’economia italiana. L’ampiezza dell’attuale recessione è, però chiaramente dovuta alla mancanza di domanda, giacché consumi e investimenti sono stati abbattuti dall’austerity feroce e dall’incertezza legata dall’incapacità dei “policy-makers” di mostrare un lontano spiraglio di luce in fondo al tunnel. In questo scenario le politiche dal lato dell’offerta non hanno nessun effetto sull’economia nel breve termine e, se un qualche effetto ci sarà, a patto che si sia in grado di colpire le vere sacche di rendita, questo si manifesterà solo nel lungo periodo. Pensare quindi che attraverso le riforme strutturali si possano bilanciare gli effetti negativi dell’austerità è una bufala che nemmeno il più tarato dei modelli economici riuscirebbe a giustificare.
Quando poi si parla di riforme strutturali, è anche importante capire a cosa ci si riferisce, altrimenti questa retorica viene solamente utilizzata per chiedere ulteriori abbassamenti del costo del lavoro e per ridurre la garanzie per i lavoratori, quando invece incertezza e facilità di licenziare non fanno altro che deprimere ulteriormente la domanda interna. Ancora una volta anche volendo seguire la teoria mainstream i dati dell’Ocse mostrano chiaramente che non esiste nessun fondamento per questo tipo di interventi. Le protezioni sul lavoro in Italia si sono ridotte notevolmente dalla fine degli anni 90 e sono ora inferiori a quelle di un buon numero di paesi, come ad esempio la Francia e il Belgio, risultando in linea con quelle offerte dalla Germania e persino dalla Svezia. L’Italia fa peggio invece su altri indicatori, come ad esempio quello che si riferisce ai limiti all’attività imprenditoriale dove siamo ultimi dopo la Grecia. La complessità della burocrazia pesa su questo risultato, ma un ruolo fondamentale lo riveste anche la corruzione. Altro indice dove il nostro paese è agli ultimi posti fra i paesi Ocse è quello della regolamentazione delle libere professioni, dove nessun governo ha il coraggio di mettere le mani per non toccare gli interessi delle potenti corporazioni del settore.
Infine l’indicatore sulla governance complessiva del paese prodotto dalla Banca Mondiale mostra un notevole declino dall’inizio del 2000. Pura coincidenza gli anni del governo Berlusconi? Forse si, anche se questo indice racchiude aree come la giustizia, l’efficienza del governo e ancora una volta la corruzione, tutti temi che toccano in un modo o nell’altro l’alleato di governo del Pd. E come dice il proverbio… chi va con lo zoppo…
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