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Roma - Entrare nel mondo delle organizzazioni non governative può essere fatto in due modi: attraverso i loro “reparti marketing” - spesso non troppo dissimili da veri e propri “Uffici Propaganda”- o attraverso la strada opposta, andando ad indagare cosa c'è dietro le crisi umanitarie e le organizzazioni internazionali che di queste si nutrono, come fa la giornalista freelance olandese Linda Polman in un vero e proprio atto d'accusa nel libro L'industria della solidarietà (titolo originale forse ancor più fortunato/azzeccato: De Crisiskaravaan), edito in Italia dalla Mondadori nel 2009.
Un lavoro sul campo durato cinque anni che porta il lettore a conoscenza dell'altra faccia di quella che l'economista zambiana Dambisa Moyo definisce la “compassione mondiale organizzata”, fatta di oltre 40.000 organizzazioni internazionali a cui ogni anno vengono affidati circa sei miliardi di dollari, tanto che le ong – insieme alle cosiddette “Mongo” (acronimo di “My own ong”), quelle organizzazioni tirate su da semplici gruppi di cittadini spesso più dannose che benefiche – rappresentano oggi la quinta economia del mondo e che si aggiungono ai circa 120 miliardi di dollari stanziati ogni anno dai Paesi donatori dell'Ocse alla voce “cooperazione allo sviluppo”.
Le 216 pagine del libro rappresentano un lavoro storico, che affronta il «collaborazionismo involontario» della Croce Rossa con il regime nazista durante l'Olocausto («Secondo l'ICRC, nemmeno il male dei campi di concentramento giustificava l'abbandono del principio di neutralità e imparzialità», scrive la Polman) passando per la Nigeria della crisi del Biafra degli anni '60, quando il colonnello Chukwuemeka Odumegwu Ojukwu si affidò alla MarkPress – un'agenzia di relazioni pubbliche di Ginevra – per far presa sul cuore e la mente dell'opinione pubblica mondiale fino al problema di organizzazioni come la Tend My Sheep di Sam Simpson, convinto di aiutare i minori mutilati della Sierra Leone semplicemente portandoseli a casa. Quello della Polman è, soprattutto, un “processo alle organizzazioni umanitarie” che lascia poco spazio ad accuse generiche e spesso teoriche, portando il lettore in una contro-storia dell'attività umanitaria mondiale infilandosi in quelle domande a cui il pubblico occidentale – che “vede” guerre e campi profughi solo attraverso il racconto mediato degli organi di informazione, anch'essi sul banco degli imputati – non pensa, come la concorrenza selvaggia fatta di tanto marketing e troppi stereotipi per accaparrarsi i contratti migliori e che riportano tutte ad una generale domanda, alla quale forse non si troverà facilmente risposta: quando i principi umanitari smettono di essere etici?
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