Mi sono chiesto spesso come mai Dante Alighieri, nella sua Divina Commedia, ponga Ulisse, il grande eroe greco da noi occidentali amato ed ammirato, nell’Inferno (V. appunto il Canto XXVI del capolavoro del Sommo Poeta).
Vi propongo una interessante spiegazione che ho trovato nel libro dello scrittore Angelo Ruggeri “L’ira di Achille” – Commento all’Iliade- edito dall’Accademia G.G. Belli nel 2011. Partiamo con l’Autore del libro dal testo dell’orazione che Ulisse rivolge ai suoi compagni alla vigilia del suo ultimo, fatale viaggio, traendolo letteralmente dal Canto XXVI dell’inferno di Dante:
“O frati”, dissi, “che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia.
d’i nostri sensi ch’è del rimanente
non vogliate negar l’esperienza,
di retro al sol, del mondo senza gente.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e conoscenza.
Li miei compagni fec’io sì aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti;
e volta nostra poppa nel mattino,
de’ remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.
Tutte le stelle già de l’altro polo
vedea la notte, e ‘l nostro tanto basso,
che non surgea fuor del marin suolo.
Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
poi che ‘ntrati eravam ne l’altro passo,
quando n’apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avea alcuna.
Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;
ché de la nova terra un turbo nacque
e percosse del legno il primo canto.
Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’altrui piacque,
infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso”.
“Non richiamano i versi dell’ultima terzina” – scrive il Ruggeri – ” il triplice assalto di Diomede ad Apollo?:
Tre volte
a morte l’assalì, tre volte Apollo
gli scosse in faccia il luminoso scudo..
Ma come il forte Caledonio al quarto
Impeto venne, il saettante nume
Terribile gridò: guarda che fai!;
via di qua Diomede! Il paragone
non tentar degli Dei, che de’ Celesti
e dei terrestri è diseguale la schiatta!”
Ricordiamo anche le parole di Dione a Venere ferita da Diomede:
“Oggi contro di te pur spinse Minerva
il figlio di Tideo. Stolto! Che seco
punto non pensa che son brevi i giorni,
di chi combatte con gli dei: né babbo
lo chiameran tornato dalla pugna
i figlioletti al suo ginocchio avvolti;
badi che l’Adrastina Egialea,
di Diomede generosa moglie,
presto non debba risvegliar dal sonno
ululando i famigli, e il forte Acheo
plorar che colse il suo virgineo fiore.”
“Supponendo che Diomede sia stato fra i compagni di Ulisse nel suo ultimo viaggio narrato da Dante” – continua il chiaro autore – “ supposizione lecita da un punto di vista poetico, ma non necessaria perché nei tempi di Omero e anche in quelli di Dante le colpe di un membro di un clan o di una famiglia ricadevano su tutto il clan e su tutta la famiglia, risultano immediate le ragioni del naufragio della loro nave.
Potevano gli Dei lascere impunita la protervia di Diomede e del suo compagno Ulisse, che con Diomede aveva anche compiuto il furto sacrilego della statua sacra del Palladio?
Dante ci narra che la nave di Ulisse fece naufragio in vista della montagna del Paradiso Terrestre: felice intuizione del nostro poeta che collega il mito greco a quello cristiano!
Poteva forse Ulisse ricondurre gli uomini da quel luogo da cui essi furono cacciati per un atto di ribellione a Dio?
Dalla Genesi:
“ Il Signore Dio diede questo comando all’uomo:
“ Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino,
ma dell’albero della conoscenza del bene e del male
non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi
certamente moriresti.”
Adamo ed Eva mangiarono il frutto, persero l’immortalità e furono cacciati dal Paradiso terrestre.
Ed a guidare il ritorno verso quel paradiso potevano essere due uomini come Diomede ed Ulisse, il primo dei quali non esitò a colpire la dea Venere ed il Dio Marte, ferendoli e deridendoli, ed il secondo era noto a tutta l’antichità per i suoi inganni e la sua astuzia applicata ad azioni di guerra? Sarebbe stato veramente assurdo secondo la logica aristotelica che Dante segue , poiché i due possedevano certamente la scienza del bene e del male, ma l’avevano applicata per compiere il male! E sarebbe stato ancora più assurdo secondo la logica cristiana.
E’ dunque l’aver fatto di Ulisse il martire della conoscenza non è arbitrario? Ma certo che lo è!
Se dunque vogliamo trovare le ragioni della condanna all’inferno di questi due eroi, non dobbiamo cercare lontano, le troviamo tutte già in Omero e trovano conferma nella Bibbia! .
Che dire dunque del famoso discorso di Ulisse:
“Fatti non fummo a viver come bruti,
ma per seguir virtute e conoscenza”,
che ha fatto scrivere tante commosse pagine e lo ha fatto apparire come un martire della conoscenza e precursore dei tempi avvenire?
Ebbene, io penso che sia il discorso di un astuto imbroglione. Un bel discorso certamente, ma non sincero
Dimostrazione immediata: Ulisse in vita era noto come un grande oratore , un uomo che con le parole vinceva tutti, così ce lo presenta Omero. Ma non era onesto e faceva uso della sua eloquenza per ingannare i nemici, e, quando gli conveniva , anche gli amici.
Dante incontra Ulisse nell’inferno dove, per definizione, stanno i peccatori non pentiti, Ulisse dunque, morendo non si è pentito, è rimasto il peccatore che era, dunque un bugiardo e un imbroglione: semplice sillogismo!
Ricordiamo che Dante ha intitolato la sua opera “Divina Commedia”, commedia dunque, cioè imitazione della realtà. Secondo i precetti di Aristotele e Orazio i caratteri dei personaggi di una commedia devono essere coerenti con quelli che la tradizione ci ha tramandato: il carattere di Ulisse è quello di un consigliere astuto , ma fraudolento. Per questo peccato egli sta all’inferno e non può smentirsi. Se si fosse pentito starebbe nel limbo.
E perché Ulisse avrebbe mentito ai suoi compagni? Per distoglierli dal loro desiderio di tornare ad Itaca! Così come i governanti dei nostri tempi parlano di missioni spaziali, della conquista della luna e di Marte per non far pensare ai gravi problemi della nostra terra!
Quando Ulisse partì da Circe egli non fece vela verso Itaca, ma su consiglio della maga, andò a visitare il mondo dei morti per interrogare l’indovino Tiresia su quello che gli sarebbe accaduto ad Itaca. Fra i morti egli incontrò la propria madre, morta di dolore e tanti eroi greci, fra i quali Achille e Agamennone, dal quale apprese la triste sorte che incontrò in patria: ucciso sulla soglia di casa dalla moglie e dall’amante di lei.
Peggio quello che Ulisse seppe da Tiresia.
“Il ritorno tu cerchi di conoscere, glorioso Odisseo, il dolce ritorno, che un dio ti renderà doloroso.Non riuscirai, io penso , a sfuggire all’Enosigeo che ti serba rancore in fondo al cuore. Egli è adirato perché gli accecasti il caro figlio. Ma anche così tornerete, pur sopportando sventure, se vorrai frenare la voglia tua e dei compagni non appena accosterai la nave all’isola Trinacria scampando al mare. Là troverete al pascolo le grasse vacche e le pecore del dio Sole, che tutto vede e tutto ascolta. . Se tu le lasci illese e pensi al ritorno, giungerete a Itaca, pur sopportando molte sventure: ma se le danneggi allora ti predico la rovina per la nave e per i compagni. E anche se tu ti salvi, tardi tornerai e malamente su navi d’altri, dopo aver perduto tutti i compagni, e troverai nella tua casa dei guai, vi troverai uomini prepotenti che ti divorano i beni e aspirano a sposare tua moglie. Ma ti vendicherai delle loro offese. E dopo che avrai ucciso nella tua casa i Pretendenti per via d’inganno o a viso aperto con l’armi,, prendi un remo e continua a viaggiare fino a quando tu arrivi fra uomini che non conoscono il mare….”
Ce n’è abbastanza per persuadere Ulisse a non far rotta verso Itaca, ma dirigersi verso l’alto mare aperto per cercare una nuova patria a sé e ai suoi pochi compagni rimastigli!
E infatti Dante non fa cenno del ritorno di Ulisse ad Itaca ma dice che dopo essere partito da Circe egli fece rotta verso l’alto mare aperto!
E si può anche lodare Ulisse per questa sua decisione, ma resta il fatto che egli mentì ai suoi compagni: pietosa menzogna, la chiameremmo noi moderni che siamo abituati alle menzogne di chi ci governa e giudichiamo normale che un politico neghi oggi ciò che ha detto ieri e contraddica le verità più evidenti. Lo si giustifica generalmente con le parole:”Lo fa a fin di bene, il bene della nazione e del suo partito”
Dante però non può moralmente approvare il comportamento di Ulisse per una semplice ragione: a causa del genere di intrighi di cui Ulisse era maestro, egli fu condannato ed esiliato dalla sua patria Firenze.
Ulisse con una falsa accusa aveva provocato la morte di Palamede e Dante per una falsa accusa era stato condannato come ladro senza che avesse avuto la possibilità di difendersi. Ulisse con un inganno aveva persuaso i Troiani ad accogliere dentro le mura della città il cavallo di legno che nella pancia nascondeva i nemici, e con un inganno Carlo di VAlois era stato fatto entrare in Firenze, come “paciere”. Per avere una idea dei sentimenti di Dante verso i suoi concittadini che lo avevano ingiustamente esiliato basta leggere i versi con i quali comincia il canto di Ulisse.
A questo punto dobbiamo affrontare una grossa obiezione che potrebbe farsi a questo mio discorso: la confusione o meglio la commistione che Dante fa fra i miti che appartengono alla Bibbia e quelli presi dalla cultura greco romana. Problema complesso al quale ho risposto nel secondo capitolo del mio libro “Il pensiero politico di Dante”, del quale trascrivo la prima pagina:
MITI CLASSICI E MITI EBRAICI
Molto si è discusso sul fatto che apparentemente Dante non fa distinzione fra i miti che appartengono alla Bibbia e quelli presi dalla cultura greco Romana o addirittura orientale; il Professor Tanelli, docente italiano che insegna in una università americana, ha scritto un poderoso libro sui “Miti della Divina Commedia” nel quale egli fonde i miti delle diverse tradizioni in una unità spirituale che il professor Vincenzo Rossi , nel suo pregevole commento al libro sintetizza in questo modo:
“ L’alta poesia della Commedia vista e vissuta dentro la luce speculativa del mito, non solo fuga le nebbie speculative che si indugiarono maldestramente su zone poetiche e zone strutturali, ma non sopporta neppure alcuna possibilità di aggettivazione, né di pagana né di cristiana pur contenente l’una e l’altra spiritualità.
Il mito dantesco così come lo sente e giudica (a nostro vedere correttamente) il Tanelli con tutte le situazioni e i personaggi che danno forma e vita al poema sacro fonde le due visuali fondamentali che l’occidente ha del mondo, Paganesimo, appunto e Cristianesimo. Ne deriva che Dante e la sua poesia sono insieme pagani e cristiani in una sintesi compatta e unitaria tale che non sopporta scorporamenti e distinzioni. Tanto che F. Schelling dal suo intuito filosofico-estetico, affermò che la potenza creatrice della poesia dantesca, creando una sua personale” mitologia” riduce ad assoluta unità la sua visione del mondo, accogliendo e facendo vivere nella Divina Commedia tutti i generi letterari”.
Io condivido pienamente questa opinione del professor Vincenzo Rossi , dottissimo nella conoscenza della letteratura greca, e del prof. Orazio Tanelli che conosce bene oltre alla letteratura italiana, le opere dei primi padri della Chiesa.”
Angelo Ruggeri
Per saperne di più:http://arspoeticamagazine.altervista.org/canto-v-dell-iliade