L’«intellettuale collettivo»

Creato il 02 marzo 2012 da Malvino
1. Ho conservato buoni rapporti personali con molti di quanti erano iscritti a Radicali italiani ai tempi in cui lo ero anch’io, anche se le occasioni per scambiare due chiacchiere insieme non sono più così frequenti come alcuni anni fa, e mi azzardo a definire amicizia ciò che mi lega ad alcuni di loro, anche se è nutrita solo da saltuari scambi epistolari, da qualche telefonata, solo raramente da qualche caffè al tavolo di un bar. Molti di loro, come me e per ragioni più o meno analoghe alle mie, non hanno più rinnovato la tessera negli ultimi anni, ma ce ne sono almeno sette o otto, forse una dozzina, che sono tuttora militanti in servizio attivo, tre dei quali rivestono cariche dirigenziali, anche se nella «galassia radicale», al pari di ogni altra area politica oggi attiva in Italia, a «dirigente» si può dare solo un significato onorario. Tutti riconoscono ampiamente fondate le critiche che ho mosso e tuttora muovo alla «cosa radicale»: tra gli ex ce ne sono molti che le hanno addirittura fatte proprie nella decisione di non iscriversi più, mentre i secondi non hanno mai smesso di ripetermi che, ingentilite nella forma, sarebbero state assai più utili se fatte «dall’interno», anche se non hanno mai saputo spiegarmi bene a cosa. È del tutto evidente anche a loro, infatti, come ai primi, che la «cosa radicale» sia strutturalmente refrattaria ad ogni critica, com’è per ogni oggetto di fede e di culto: blasfemia, se mossa «dall’esterno», e apostasia, se mossa «dall’interno».Negli ultimi due o tre anni non ho avuto molto tempo per interessarmi di Radicali italiani e quasi tutti i post che ho dedicato alla «cosa radicale» sono nati dalle segnalazioni e dalle sollecitazioni di queste voci amiche: anche quando il giro di posta o la telefonata pigliavano occasione da tutt’altro, un «sai l’ultima?» era la regola, anche se solo per una rapida chiusa in due battute, dai massimi sistemi all’infimo pettegolezzo, con la nota costante di un amaro sarcasmo sulla sempre più palese involuzione settaria del «cerchio magico» attorno a Pannella. Non che i tratti settari fossero meno evidenti negli anni passati, ma è che prima erano pudicamente trattenuti e sdegnosamente negati, mentre negli ultimi anni sono venuti ad essere sempre più orgogliosamente esibiti. Epifenomenica, ancorché fenomenale, è l’ammissione che la «cosa radicale» sia «cosa» a guida carismatica. Cosa evidente da sempre, ma fino a qualche anno fa negata in primo luogo da Pannella, che oggi invece non fa alcuna fatica ad ammetterla, senza trattenersi dalla sfizio di compiacersene. Ritengo, tuttavia, che uno dei sintomi più significativi di questa involuzione sia il sempre più frequente uso autoreferenziale che l’anziano guru e i suoi accoliti hanno preso a fare, e con sempre più insistenza da qualche tempo in qua, dell’espressione «intellettuale collettivo». Mi era stato segnalato in più occasioni, ma non avevo mai avuto possibilità di verificare. Poi, l’ho fatto. E ora posso dare una risposta a quanti mi hanno chiesto un’opinione al riguardo.2. L’idea di un partito da intendere come «intellettuale collettivo» nasce in Antonio Gramsci come espressione del superamento della «società di classe» del quale quel partito intende farsi attore. L’«intellettuale collettivo», dunque, non è solo il risultato di tale superamento, ma intende esserne il protagonista: destinato a diventare realtà sociale diffusa allorquando le classi saranno un ricordo del passato, è già in nuce nell’avanguardia della classe operaia che si struttura in partito, «elemento di società complesso nel quale già abbia inizio il concretarsi di una volontà collettiva riconosciuta e affermatasi parzialmente nell’azione».In tale superamento è ovviamente messa in discussione la figura dell’«intellettuale organico», che invece è caratteristica espressione della «società di classe» in ogni secolo e ad ogni latitudine, giacché «ogni gruppo sociale, nascendo sul terreno originario di una funzione essenziale nel mondo della produzione economica, si crea insieme, organicamente, uno o più ceti di intellettuali che gli danno omogeneità e consapevolezza della propria funzione non solo nel campo economico, ma anche in quello sociale e politico». Siamo dinanzi alla nota teoria dell’economia come struttura e della cultura come sovrastruttura.In realtà, Gramsci prende in considerazione anche un altro tipo di intellettuale, quello che definisce «tradizionale», che di fatto, però, non è meno «organico» a un gruppo sociale, anche se si tratta della classe destinata a perdere l’egemonia in favore di quella emergente. «La più tipica di queste categorie intellettuali – scrive nei suoi Quaderni – è quella degli ecclesiastici», «organicamente legata all’aristocrazia fondiaria». Se ne dovrebbe dedurre che con la caduta dell’aristocrazia fondiaria avremmo dovuto assistere ad un progressivo e inarrestabile declino della funzione intellettuale del clero, ma è evidente che così non è stato. Sembrerebbe la prova che qualcosa non funzioni entro la logica che sostiene il materialismo dialettico, se non fosse che lo stesso Gramsci, ne Il Vaticano e l’Italia, dà la definizione di «intellettuale collettivo» anche alla Chiesa di Roma. Parrebbe una grave contraddizione, ma non si deve fare confusione, perché qui l’espressione non sta a rappresentare il «cervello» del «moderno Principe», ma il portato storico di quell’«ut unum sint» che fa di una «communitas vivorum atque mortuorum» l’allegoria vivente di un corpo metastorico. Fin dalle epistole paoline, d’altronde, la Chiesa è rappresentata come un corpo mistico entro il quale i vivi e i morti sono in una comunione che è dello Spirito, e dunque anche dei suoi attributi, oltre la storia, e quindi anche di là dai conflitti di classe che in essa si snodano. Siamo, insomma, dinanzi a un nodo teologico che avrà spesso, lungo tutta la storia del cristianesimo, la rappresentazione della ecclesia come un unico organismo, dotato di un’unica ratio intellettiva. Non si tratta di mera allegoria, almeno per chi ha fede, perché unità e carismi non sono semplici metafore, ma momenti che dalla dimensione teologica sono chiamati a inverarsi in quella sociologica, sicché arriviamo senza alcun imbarazzo alla formulazione di una «Chiesa come intellettuale collettivo» nell’ambito di un progetto di «teismo come funzione pubblica» (cfr. Gustavo Guizzardi, ne: La legittimazione simbolica, Morcelliana 1986).3. Eccoci al punto: quando Pannella afferma che pure i radicali sono un «intellettuale collettivo», pensa al partito marxista-leninista, alla Pentecoste o qualcos’altro?Comincerei col dire che gli argomenti che sono portati in favore dell’introduzione di questa espressione nell’idioletto radicale chiariscono che si tratta di un uso francamente improprio: l’operazione è dichiarata legittima in virtù del fatto che Antonio Gramsci avrebbe lasciato tanto vago il concetto espresso dal termine da consentire a chi volesse, poco meno di un secolo dopo, di infilarci dentro qualsiasi cosa. Non è così, ovviamente, e basta tirar giù dallo scaffale i Quaderni: «Con l’estendersi dei partiti di massa e il loro aderire organicamente alla vita più intima (economico-produttiva) della massa stessa, il processo di standardizzazione dei sentimenti popolari da meccanico e casuale diventa consapevole e critico. La conoscenza e il giudizio di importanza di tali sentimenti non avviene più da parte dei capi per intuizione […] ma avviene da parte dell’organismo collettivo per compartecipazione attiva…». Nel partito che si autodefinisce «intellettuale collettivo», insomma, si verifica «un legame stretto tra grande massa, partito, gruppo dirigente», sicché «tutto il complesso, ben articolato, si può muovere come un uomo collettivo».Bene, non è proprio il contrario del partito a guida carismatica, nel quale la compartecipazione è sempre cogente (al punto che si identifica con la comunione compassionevole) e l’articolazione parte sempre dall’alto verso il basso (al punto che non si muove foglia che Pannella non voglia)? E dove sarebbe, poi, lo stretto legame tra la grande massa e le iniziative radicali? Se c’è stato, e può darsi ci sia stato, da quanto tempo non c’è più? E non sono pressoché costanti i mugugni che dalla base elettorale radicale si alzano verso i dirigenti? La frase che da anni è più frequentemente rivolta ai radicali (con o senza sputo) non è forse «non vi voto più»? Non è forse vero che da anni ogni iniziativa che parte dalla dirigenza radicale deve essere lungamente digerita dagli iscritti per esser fatta propria, e non sempre viene metabolizzata a dovere, e non di rado provoca fastidiose indigestioni e frequenti rigurgiti? La gran parte del paese non ha dei radicali un’idea ben diversa da quella che i radicali ritengono di incarnare?Sì, sono domande retoriche. E qual è, allora, l’unico modo in cui è possibile parlare di «intellettuale collettivo» per un’accolita come quella pannelliana? Mi pare che la risposta non sia troppo difficile: se non può andar bene per il partito marxista-leninista immaginato da Gramsci, può andar benissimo per una comunità che abbia i caratteri dell’ecclesia. Di una chiesa, occorre precisare, che all’esaurirsi delle sue potenzialità di crescita nel proselitismo mette in atto i più comuni meccanismi di chiusura verso il mondo esterno, in difesa della sua ortodossia.Non è sempre stato così, per ogni chiesa? Nella fase di espansione prevale la tendenza all’apertura e alla contaminazione, mentre al collasso e all’implosione la reazione più comune sta nella chiusura e nella strenua resistenza a ogni minaccia che venga a mettere a rischio i suoi valori fondativi: «dall’interno» è tradimento, «dall’esterno» è regime. Tanto vittimismo, un pizzico di paranoia e un continuo ripetersi a vicenda «meglio pochi ma buoni». In questa fase di ripiegamento in se stessa, è regola comune che una chiesa faccia appello all’orgoglio identitario dei suoi membri, ai quali è chiesta fedeltà assoluta ai princìpi, e al culto della personalità del suo massimo rappresentante, che ne diventa il depositario, incarnandone la quintessenza.L’«intellettuale collettivo» radicale, dunque, non può essere rappresentato altrimenti che nel modo in cui Gramsci ne parlava riferendosi alla Chiesa di Roma: successione apostolica da pontefice a pontefice, da papa laico a papa laico, da Croce a Pannella. Il portato, contrariamente a quanto si è comunemente portati a credere, non è il liberalismo: come già fu in Croce, il liberalismo è solo il vestito. Il portato è un neo-idealismo che nel corso dei 50 anni e più di storia radicale ha sperimentato diversi mimetismi, con disordinata smania eclettica e patente autocompiacimento nell’accumulare contraddizioni.4. Questa fola radicale dell’«intellettuale collettivo» non nasce neanche tutta storta. Diciamo che nasce dal tentativo di rifarsi una verginità dopo averla persa nei maneggi col centrodestra, nella pia illusione di cavalcare la «rivoluzione liberale» di Silvio Berlusconi. Nel 2006 è Simone Sapienza che in una lettera aperta alla Direzione nazionale di Radicali italiani lancia l’appello: «Vi auguro, ci auguro, di tornare a essere presto un intellettuale collettivo» (Notizie Radicali, 20.11.2006). Un tentativo ingenuo e disperato di riportare i radicali nel solco che era stato dei liberali di sinistra.Il testo della lettera è breve ed è utile riportarlo per intero in questa sede, perché rivela un’ansia assai diffusa in un partito che usciva con le ossa rotte da un congresso assai tumultuoso: «Cari compagni della nuova direzione, credo che in questa amara discesa verso la disgregazione, la causa che ha pesato più di ogni altra è stata una certa e dilagante solitudine. Ciò che rischia di vincerci all’esterno (l’isolamento, il rifiuto, l’impossibilità di essere compresi) ha finito per invadere il perimetro intorno a noi, è diventato noi. La solitudine è evoluta in metodo, sostituendo tutto ciò che poteva essere collettivo con procedure e comportamenti «privati». Ognuno di noi prima o poi ha ceduto nel dirsi «se il partito non c’è, questo devo farlo da solo». Sarà anche il segno di questi tempi (eppure quanto ognuno di noi è stato attratto dai radicali proprio per la loro sfida al “senso comune”!), ma in questo paesaggio non potevano che emergere persone come quelle da cui Marco, suo malgrado, deve continuare a difendersi. E queste hanno attirato e promosso propri simili. Con tal fatte persone ogni dialogo tentato, ogni critica avanzata, non poteva che essere vissuta come minaccia. Per salvarci, salvando così, è inutile negarlo, un possibile senso del nostro destino, non si può che ripartire da qui, compagni. Vi auguro, ci auguro, di tornare a essere presto un intellettuale collettivo».Anche se molto faticosamente, Pannella era riuscito a schiodare Capezzone dalla potrona sulla quale lo aveva voluto per anni, contro ogni mugugno che si era sollevato in reazione alla linea politica per la quale era stato inchiodato alla segreteria di Radicali italiani. Ora, a Capezzone si potrà rimproverare tutto, e sarà sempre poco, ma sarebbe ingiusto non riconoscergli un merito: aver tentato di depannellizzare la «cosa radicale». Purtroppo l’intenzione era quella di capezzonizzarla, un po’ come tentare di trasformare Scientology in Udeur, sicché poteva andare solo nel modo in cui è andata: Scientology sta ancora lì, Mastella è dato per disperso.Ero membro della Direzione nazionale alla quale Sapienza rivolgeva quell’appello e la mia risposta fu la seguente: «Sono sicuro che il termine sia scappato di penna a Simone nell’enfasi un po’ sentimentalista che pervade la sua lettera, ma a me ha fatto ricordare che questa è la definizione che Gramsci dà alla riedizione proletaria del Principe, cioè il Partito, quello con la maiuscola e, per sovraggiunta, nelle sue pagine anticlericali, alla Chiesa di Roma. Un intellettuale collettivo? Che orrore! » (Malvino, 20.11.2006). D’altra parte, avevo sempre preferito dirmi liberale piuttosto che radicale, l’uso del termine «compagno» mi aveva sempre dato l’orticaria e ripetevo continuamente «non sono pannelliano, non sono capezzoniano» (Malvino, 5.3.2007): insomma, lì dentro ero davvero fuori luogo.L’appello trovò, invece, un sincero apprezzamento da parte di Pannella, che oggi spiega in questo modo il perché tornava buono in quel momento, naturalmente facendo sua l’idea di Sapienza: «Per un po’ di volte ho detto che di Gramsci ricordano tutto, l’intellettuale organico e tutto quanto il resto, ma l’intellettuale collettivo no. L’intellettuale collettivo significa che c’è un partito che non è un fatto ideologico. È un partito che per le sue strutture, il suo inverarsi, le sue contraddizioni, il suo incedere nei decenni, recepisce al massimo i contributi intellettuali minimi e massimi e di altro tipo, proprio grazie alla specifica apertura strutturale che nega qualsiasi altra forma di partito o di chiesa» (Radio Radicale, 19.2.2012). Non una parola su come le contraddizioni possano raccogliersi in unità senza la mediazione di ciò che in un partito è disciplina e in una chiesa è fede.Contraddizione in termini anche da parte di chi si arrischia alla glossa: «I radicali sono un intellettuale collettivo, ma spesso sembra che non se ne abbia la piena consapevolezza. La complessità che ci circonda, infatti, richiede di moltiplicare i punti di vista sui problemi da affrontare mettendo in relazione soggetti diversi, esperienze varie, apporti molteplici. Per questa ragione i radicali non hanno una struttura gerarchia e verticistica, cioè sviluppata in verticale quanto, piuttosto, in orizzontale: ciascuno offre il proprio apporto rispetto alle qualità, al talento, alle capacità e alle competenze che ha… Non c’è una gerarchia, ma ci sono delle responsabilità, più o meno grandi, più o meno consapevoli. Esistono delle funzioni diverse, ma queste funzioni non corrispondono a dei gradi da cucire sulla giacca. Non vi è una struttura gerarchica o d’ispirazione militare» (Pier Paolo Segneri - Notizie Radicali, 23.11.2011). Chiunque abbia avuto esperienza diretta della militanza radicale non può che scoppiare a ridere: la «cosa radicale» è materialmente proprietà privata di Pannella.5. C’è un modo di pensare l’«intellettuale collettivo» fuori da un contesto che sia giocoforza assimilabile alla disciplina del partito marxista-leninista e alla fede della Chiesa di Roma, ed è quello che Pierre Levy illustra ne L’intelligenza collettiva (Feltrinelli, 1996): «L’intellettuale collettivo è una sorta di società anonima alla quale ogni azionista contribuisce per il capitale delle proprie conoscenze, delle proprie navigazioni, della propria capacità di imparare e di insegnare. Il collettivo intelligente non sottomette né limita le intelligenze individuali ma, al contrario, le esalta, le fa fruttare e apre loro nuove possibilità. Questo soggetto transpersonale non si accontenta di sommare le intelligenze individuali. Fa crescere una forma di intelligenza qualitativamente diversa, che va ad aggiungersi alle intelligenze personali, una sorta di cervello collettivo o ipercorteccia sociale».È questo il modello radicale? No, di certo. Non siamo dinanzi ad «una sorta di società anonima», ma ad un movimento politico che si identifica in una persona. Senza alcun imbarazzo, peraltro, nemmeno in quanti fra i radicali hanno ben chiaro che quella dell’«intellettuale collettivo» è solo un’immagine che serve solo dare un po’ di paglia alla fiamma dell’orgoglio identitario attorno al quale stringersi: «Il sogno di un partito radicale senza Pannella è il sogno di uno che ha mangiato pesante: non ha senso. Il partito radicale è lui. Punto» (Massimo Bordin - Il Foglio, 28.10.2004).

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