«Credo fortemente in Milano e mai mi verrebbe in mente di sfilare a Parigi. Certo per gli stilisti emergenti, anche se preferisco definirmi un designer, la start-up è difficile da far decollare: per fare cose belle e di qualità l'investimento di partenza è altissimo. I soldi sono l'ostacolo più grande e oltretutto in questo momento ho tanti insoluti anche da negozi importanti. Ma il denaro non basta. Serve anche qualcuno che ti tolga i pensieri: altrimenti rischi che le preoccupazioni operative abbiano il sopravvento sulla creatività».
Andrea Incontri, 41 anni, guarda ammirato la sede milanese del Sole 24 Ore progettata da Renzo Piano in una mattinata di cielo turchese. È architetto, anche se avrebbe voluto iscriversi a una facoltà di design, ed è stato per nove anni docente di fashion design al Politecnico, oltre a svolgere per cinque anni la professione di interior designer, successivamente virata verso il fashion. Nato a Mantova, sognava fin da bambino di vivere nel capoluogo lombardo, città natale della mamma, insegnante di stenografia, mentre i nonni materni avevano una sartoria proprio a Milano.
Incontri, come mai questo "salto" da una professione all'altra?
Progettavo interni e spazi espositivi, e sentivo il forte nesso fra l'architettura e la moda, soprattutto riguardo alla ricerca di forme e materiale, che sono l'ossessione del mio lavoro. Così mi sono spostato sul product design, lavorando con Alessi e Samsung, e sono infine approdato alla moda come autodidatta.
Come ha iniziato nella moda?
Come consulente di Centopercento Italiano, il consorzio che raggruppa una cinquantina di produttori di settori forti del made in Italy, come moda e pelletteria: come direttore artistico, ho curato eventi a New York, Mosca e Londra. A un certo punto mi hanno chiesto di coordinare l'immagine di una collezione di pelletteria che raccontasse l'etica del saper fare: la lavorazione artigianale dei pellami, i punti-selleria e altri dettagli della sapienza produttiva italiana. Quando si va in giro per il mondo, è tramite queste iniziative promozionali che le griffe del lusso selezionano gli artigiani italiani come terzisti.
E così...
E così, per comprendere il loro lavoro, sono stato a stretto contatto con tecnici e operai e mi sono appassionato al mondo della pelletteria, con cui ho debuttato nel settore, e della purezza delle sue forme. Da lì ho avviato collaborazioni con alcuni famosi marchi: da Fratelli Rossetti ad Alcantara, da Jil Sander Navy ad Aiguille Noir e ad Add. Nel 2008 ho lanciato la mia linea di pelletteria unisex, cercando di dare un'identità fisica alla mia idea.
Chi la distribuiva?
Io stesso, ovviamente, caricando in auto il campionario e girando per i multimarca a caccia di una commercializzazione: un'attività utilissima, perché mi ha permesso di mettermi in gioco con passioni, desideri, frustrazioni. E di ricevere critiche e consigli, tutti sempre utili. Nel frattempo ho collaborato per quattro anni con Pontoglio 1883, un'azienda storica nella creazione dei velluti d'altissima gamma, facendo ricerche su know how, stampe, costruzioni tessili; ho fatto anche parte del comitato di Première Vision e andavo a Parigi alla maison Saint Laurent per realizzare tessuti esclusivi.
A tutto campo, insomma.
Sì, tutta esperienza nella filiera della pelletteria e in quella tessile, e rapporti personali che mi consentono oggi di ordinare alle stamperie di Como piccoli metraggi, ad esempio dello strepitoso piquet che ho utilizzato nella collezione donna primavera 2013: far fare appena dieci metri anziché cento non è facile. Nel 2009 ho lanciato il marchio che porta il mio nome, con l'obiettivo di coniugare esperienze sartoriali e artigianali in un progetto di pelletteria, calzature e abbigliamento, con focus su singoli prodotti come le camicie uomo e donna e il capospalla in loden austriaco, in collaborazione con Habsburg.
E il passaggio vero e proprio al prêt-à-porter?
Un momento: prima c'è il primo posto nel concorso Who's on Next Uomo nella categoria accessori, nel giugno 2010, cui fa seguito lo show "AI–Waiting Room" durante Pitti Uomo del gennaio successivo. In pratica, ho utilizzato il denaro vinto al concorso per finanziare uno short film di Yuri Ancarani, guest star Benedetta Barzini, seguito da una performance che era già un'idea di sfilata: in passerella, insieme, le collezioni uomo e donna. Infine, altri due eventi legati al Pitti e il debutto nella moda a settembre a Milano.
Ma il suo è davvero tutto made in Italy?
Certo! Tessuti, lavorazioni e finiture: i clienti non possono essere presi in giro sulla provenienza di un marchio.
Magari fosse vero per tutti i brand. Dove si appoggia?
Ho una mia sartoria a Milano dove lavorano Mariko, sarta in senso stretto, e Margherita, che si occupa di tessuti e sartoria. Sviluppiamo il campionario, che incide circa il triplo rispetto al prezzo della produzione. Poi mi avvalgo di collaboratori: un'azienda veneta per le camicie, una pelletteria storica di Sesto Calende e un laboratorio sartoriale di Lambrate, a Milano, per le piccole produzioni.
Il posizionamento è quindi alto di gamma?
Sì: un cappotto dell'autunno-inverno in corso, sviluppato in partnership con Schneiders, è in vendita a Spiga 2 a 1.200 euro, ma in generale i miei cappotti sono sotto i mille; un vestito in duchesse di raso, con tessuto Taroni, è a 650-700 euro.
Preferisce le collezioni uomo o quelle donna?
In questo momento ho un interesse enorme per la donna, dove per la prima volta sono riuscito a esprimere: delicatezza, freschezza e pudicità.
Ha accennato a Spiga 2, lo store accessori Dolce & Gabbana dove i due stilisti concedono spazi e vetrine agli emergenti. In quanti altri punti vendita è distribuito?
Una quarantina, attraverso 247Showroom: in Italia ho una buona distribuzione e c'è feeling anche in Giappone, Corea e Cina. Comunque mi occupo anche di persona di negozi importanti come la nipponica United Arrows, uno dei primi a credere nel mio lavoro.
Quanto fatturerà nel 2012?
Sotto il milione di euro.
Se si facesse vivo un fondo di private equity?
Magari... Ma deve credere nel mio progetto. A chi sta emergendo servirebbero delle linee-guida per non commettere errori, un percorso che consenta di far esplodere il talento sospeso, anarchico e bello in quanto tale. Alla piccola impresa serve concretezza e tante volte ci si perde dietro al pensiero di ottenere un articolo in più su un giornale o sul web o un negozio in più dove distribuire i propri prodotti. Faccio ancora consulenze per altri brand, perché mi servono per pagare i due ragazzi che lavorano all'ufficio stile, persone che devono pagare l'affitto, così come lo devo pagare io. Ma le consulenze tolgono spazio alla operatività, alla logistica, alla puntualità delle consegne. E, in ultima analisi, alla poesia dell'estetica.
Magazine Lifestyle
L'intervista di Moda 24 a Andrea Incontri: «Punto tutto sulla qualità made in Italy. Ma che fatica la start up nella moda»
Creato il 19 ottobre 2012 da Dg_victims @DG_VICTIMS
«Credo fortemente in Milano e mai mi verrebbe in mente di sfilare a Parigi. Certo per gli stilisti emergenti, anche se preferisco definirmi un designer, la start-up è difficile da far decollare: per fare cose belle e di qualità l'investimento di partenza è altissimo. I soldi sono l'ostacolo più grande e oltretutto in questo momento ho tanti insoluti anche da negozi importanti. Ma il denaro non basta. Serve anche qualcuno che ti tolga i pensieri: altrimenti rischi che le preoccupazioni operative abbiano il sopravvento sulla creatività».
Andrea Incontri, 41 anni, guarda ammirato la sede milanese del Sole 24 Ore progettata da Renzo Piano in una mattinata di cielo turchese. È architetto, anche se avrebbe voluto iscriversi a una facoltà di design, ed è stato per nove anni docente di fashion design al Politecnico, oltre a svolgere per cinque anni la professione di interior designer, successivamente virata verso il fashion. Nato a Mantova, sognava fin da bambino di vivere nel capoluogo lombardo, città natale della mamma, insegnante di stenografia, mentre i nonni materni avevano una sartoria proprio a Milano.
Incontri, come mai questo "salto" da una professione all'altra?
Progettavo interni e spazi espositivi, e sentivo il forte nesso fra l'architettura e la moda, soprattutto riguardo alla ricerca di forme e materiale, che sono l'ossessione del mio lavoro. Così mi sono spostato sul product design, lavorando con Alessi e Samsung, e sono infine approdato alla moda come autodidatta.
Come ha iniziato nella moda?
Come consulente di Centopercento Italiano, il consorzio che raggruppa una cinquantina di produttori di settori forti del made in Italy, come moda e pelletteria: come direttore artistico, ho curato eventi a New York, Mosca e Londra. A un certo punto mi hanno chiesto di coordinare l'immagine di una collezione di pelletteria che raccontasse l'etica del saper fare: la lavorazione artigianale dei pellami, i punti-selleria e altri dettagli della sapienza produttiva italiana. Quando si va in giro per il mondo, è tramite queste iniziative promozionali che le griffe del lusso selezionano gli artigiani italiani come terzisti.
E così...
E così, per comprendere il loro lavoro, sono stato a stretto contatto con tecnici e operai e mi sono appassionato al mondo della pelletteria, con cui ho debuttato nel settore, e della purezza delle sue forme. Da lì ho avviato collaborazioni con alcuni famosi marchi: da Fratelli Rossetti ad Alcantara, da Jil Sander Navy ad Aiguille Noir e ad Add. Nel 2008 ho lanciato la mia linea di pelletteria unisex, cercando di dare un'identità fisica alla mia idea.
Chi la distribuiva?
Io stesso, ovviamente, caricando in auto il campionario e girando per i multimarca a caccia di una commercializzazione: un'attività utilissima, perché mi ha permesso di mettermi in gioco con passioni, desideri, frustrazioni. E di ricevere critiche e consigli, tutti sempre utili. Nel frattempo ho collaborato per quattro anni con Pontoglio 1883, un'azienda storica nella creazione dei velluti d'altissima gamma, facendo ricerche su know how, stampe, costruzioni tessili; ho fatto anche parte del comitato di Première Vision e andavo a Parigi alla maison Saint Laurent per realizzare tessuti esclusivi.
A tutto campo, insomma.
Sì, tutta esperienza nella filiera della pelletteria e in quella tessile, e rapporti personali che mi consentono oggi di ordinare alle stamperie di Como piccoli metraggi, ad esempio dello strepitoso piquet che ho utilizzato nella collezione donna primavera 2013: far fare appena dieci metri anziché cento non è facile. Nel 2009 ho lanciato il marchio che porta il mio nome, con l'obiettivo di coniugare esperienze sartoriali e artigianali in un progetto di pelletteria, calzature e abbigliamento, con focus su singoli prodotti come le camicie uomo e donna e il capospalla in loden austriaco, in collaborazione con Habsburg.
E il passaggio vero e proprio al prêt-à-porter?
Un momento: prima c'è il primo posto nel concorso Who's on Next Uomo nella categoria accessori, nel giugno 2010, cui fa seguito lo show "AI–Waiting Room" durante Pitti Uomo del gennaio successivo. In pratica, ho utilizzato il denaro vinto al concorso per finanziare uno short film di Yuri Ancarani, guest star Benedetta Barzini, seguito da una performance che era già un'idea di sfilata: in passerella, insieme, le collezioni uomo e donna. Infine, altri due eventi legati al Pitti e il debutto nella moda a settembre a Milano.
Ma il suo è davvero tutto made in Italy?
Certo! Tessuti, lavorazioni e finiture: i clienti non possono essere presi in giro sulla provenienza di un marchio.
Magari fosse vero per tutti i brand. Dove si appoggia?
Ho una mia sartoria a Milano dove lavorano Mariko, sarta in senso stretto, e Margherita, che si occupa di tessuti e sartoria. Sviluppiamo il campionario, che incide circa il triplo rispetto al prezzo della produzione. Poi mi avvalgo di collaboratori: un'azienda veneta per le camicie, una pelletteria storica di Sesto Calende e un laboratorio sartoriale di Lambrate, a Milano, per le piccole produzioni.
Il posizionamento è quindi alto di gamma?
Sì: un cappotto dell'autunno-inverno in corso, sviluppato in partnership con Schneiders, è in vendita a Spiga 2 a 1.200 euro, ma in generale i miei cappotti sono sotto i mille; un vestito in duchesse di raso, con tessuto Taroni, è a 650-700 euro.
Preferisce le collezioni uomo o quelle donna?
In questo momento ho un interesse enorme per la donna, dove per la prima volta sono riuscito a esprimere: delicatezza, freschezza e pudicità.
Ha accennato a Spiga 2, lo store accessori Dolce & Gabbana dove i due stilisti concedono spazi e vetrine agli emergenti. In quanti altri punti vendita è distribuito?
Una quarantina, attraverso 247Showroom: in Italia ho una buona distribuzione e c'è feeling anche in Giappone, Corea e Cina. Comunque mi occupo anche di persona di negozi importanti come la nipponica United Arrows, uno dei primi a credere nel mio lavoro.
Quanto fatturerà nel 2012?
Sotto il milione di euro.
Se si facesse vivo un fondo di private equity?
Magari... Ma deve credere nel mio progetto. A chi sta emergendo servirebbero delle linee-guida per non commettere errori, un percorso che consenta di far esplodere il talento sospeso, anarchico e bello in quanto tale. Alla piccola impresa serve concretezza e tante volte ci si perde dietro al pensiero di ottenere un articolo in più su un giornale o sul web o un negozio in più dove distribuire i propri prodotti. Faccio ancora consulenze per altri brand, perché mi servono per pagare i due ragazzi che lavorano all'ufficio stile, persone che devono pagare l'affitto, così come lo devo pagare io. Ma le consulenze tolgono spazio alla operatività, alla logistica, alla puntualità delle consegne. E, in ultima analisi, alla poesia dell'estetica.
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