Non ci si lasci ingannare dalla celebrità del comico, dalla frizzante verve del presentatore, dall'opinionista bislacco, che l'ultimo libro di Gene Gnocchi va bene inquadrato nel novero strabordante delle prove narrative che non celano l'ambizione di raccontare il presente italiano, il nostro declino socio-culturale, da basso impero. Epperò Gnocchi decide di farlo alla sua maniera, frequentando le regioni del non-senso, dell'assurdo, del racconto paradossale che mira a rivelare un che di paradigmatico. Nella struttura il suo è un romanzo a cornice (forse sarebbe meglio dire un non-romanzo) che viaggia su tre livelli: la vicenda editoriale del libro poi rimasto incompiuto, la prematura improvvisa scomparsa dell'autore (proprio così) con gli immancabili inediti pubblicati postumi, la storia del personaggio protagonista del romanzo; quasi a configurare un mini-reportorio di generi possibili. Ma andiamo per ordine.
Protagonista della storia che interessa raccontare all'autore è Camillo Valbusa, venditore ambulante di siero antivipera che, a bordo della sua Seat Toledo, gira per l'Appennino compiendo pratiche dimostrazioni su piazza dell'efficacia del suo prodotto, accompagnato da una Vipera aspis di nome Carlotta e dal nipotino di sei anni Mirko, che regolarmente lascia morsicare dalla vipera per poi somministrargli l'antidoto che lo fa subito stare meglio. Qualora nessuno si convinca a comprare, mette sistematicamente in atto una vendetta assai singolare: gira per il paese svelando con l'altoparlante tutti i finali dei film che vengono dati in proiezione nel raggio di cento chilometri. Non è tutto.
Il vero motivo d'interesse non è la singolare professione, quanto piuttosto la radicata sua convinzione che, nonostante si continui a vivere, il mondo sia bell'e finito, di fatto non esista più: ‹‹quindi tutti i fatti accadono ma morti, come se non fossero già più del mondo, sospesi, senza storia, senza flusso››. Un'idea, quella d'un mondo finito pur nel suo vuoto perdurare, maturata attraverso cinque anni di analisi di ‹‹cose viste e sentite›› (di volta in volta annotate su di un blocchetto di appunti), considerate dietro tutti i punti di vista, e radunate a prove inconfutabili della oramai conclamata fine del mondo in un diario. La rubricazione dei segni palesi del ‹‹dopo la fine››, diviene così l'evidente pretesto per Gene Gnocchi di allineare autonomi pezzi narrativi che rimandino alla schizofrenia del nostro quotidiano e del presente nazionale: repertorio di situazioni paradossali (speziate di corrosiva e a tratti nera ironia) d'un mondo fuori sesto; e dove tic, comportamenti, fatti reali, parossisticamente deformati, slabbrati fino al punto di rottura, offrono una proiezione appena caricaturale del nostro presente: centrifugato e rovesciato, per l'occasione, sulla pagina, entro uno sfondo da allegra apocalisse.
A cogliere meglio il senso dell'operazione letteraria, ci aiuta la non casuale avvertenza, comica nel tono ma amaramente seria nel senso, di cui è corredato in apertura il libro: ‹‹Ci tengo a precisare che tutti i personaggi e gli accadimenti di questo romanzo sono rigorosamente veri e non frutto di fantasia››. Come dire che l'inventio sopravanza lo stato delle cose di quel tanto che è sufficiente per mettere alla berlina una realtà sclerotizzata, distonica, solo appena condita dalla vena umoristica dello scrittore. Ecco che il carosello di trovate messe insieme non può che avere per canovaccio il mondo distorto della politica, la broda velenosa dell'intrattenimento televisivo (e più in generale della bolla dello spettacolo, con l'imperante strapotere dei suoi modelli), il circo Barnum della letteratura italiana e dei mostri sacri della cultura del Novecento: così da Fini e 'Fare Futuro', dalle manovre finanziarie sanguisughe di Tremonti, da un Hannibal Lecter divenuto premier e puntualmente sottratto alla giustizia dall'invocato legittimo impedimento (chiara controfigura del signor B.), si trascorre agli esilaranti risvolti della querelle Albano-Jackson, ai fulminanti giudizi su scrittori di grido (Erri De Luca, Margaret Mazzantini, Susanna Tamaro), allo humor nero di un Roberto Saviano dead man walking ancora tenuto in vita per il solo fatto che i diritti d'autore sul suo libro e sul film fanno anch'essi parte degli introiti dell'impero economico della camorra; né mancano icastici amari quadretti che rinviano a questi anni di crisi economica e di progressivo impoverimento, come la famiglia Passera che per sbarcare il lunario offre a pigione, dietro piccolo compenso, la propria camera come ardente alle famiglie in difficoltà, o come il pensionato di Foggia che, investendo tutta la sua pensione di reversibilità in trucchi e parrucche, gira per le case spacciandosi per Giovanni Rana per ‹‹farsi dare da mangiare››.
È proprio dal pigiare ad oltranza l'acceleratore sul gioco deformante, chirurgicamente applicato a quelle tracce concrete d'una realtà deflagrata, che aggalla più di un'unghia d'inquietante verità su di una contemporaneità (si spera non irrimediabilmente) malata.
Alla metà circa del libro il lettore incontra la Notadell'Editore che informa come, per l'inattesa scomparsa dell'autore, il libro non solo esce postumo ma largamente incompleto, integrato (per volere dell'editore) con due interviste postume rilasciate dallo scrittore a Gabriele Romagnoli e a Vittorio Zincone (parodia di tante "prime" e "ultime interviste") e una serie di carteggi inediti intrattenuti nel corso degli anni dal Nostro con eminenti personalità del mondo culturale italiano e non solo. Veri e propri esercizi di stile, gustosi divertissements, nel finto epistolario troviamo dispiegarsi, di nuovo alleggerito, l'umorismo colto e funambolico di Gene Gnocchi. L'intenzione di aver chiarito, una volta per tutte, quanti e quali fossero effettivamente i membri del Gruppo '63, dal momento che ormai ‹‹non passa giorno senza che qualche intellettuale o scrittore non professi d'averne fatto parte››, lo spinge a intrattenere un fitto scambio epistolare con Nanni Balestrini perché faccia luce sull'annosa questione (perché, si rammenti: in principio era il Verbo, e il Verbo era presso il Gruppo '63, e il Verbo era il Gruppo '63), con la fastidiosa intromissione di un Alberto Arbasino del quale si sbeffeggia lo snobismo autoreferenziale del suo "eterno" gioco linguistico, con l'esito finale d'una massiccia rivendicazione d'appartenenza che arriva fino ai campioni della narrativa italiana d'oggi (Carlo Lucarelli, Giorgio Faletti, Niccolò Ammaniti, Fabio Volo) e all'immancabile onnipresente Maurizio Costanzo; in un'altra lettera mette a parte l'emerito professor Kurt Gödel (quello del celebre teorema di incompletezza) di talune postille correttive che gioverebbero a meglio sviluppare le argomentazioni logico-formali circa la sua Prova ontologica dell'esistenza di Dio; altrove, scrive con amarezza e in tono di deluso rimprovero a Benedetto Croce, reo di attardarsi nelle pastoie di un anacronistico idealismo (platonismo), e il filosofo giù a rispondere d'esser stato costretto a riscrivere in toto, in chiave platoneggiante, i Nuovi saggi di estetica dopo la bocciatura di Benedetto XV, per tirare a campare (così funzionano le cose in Italia), perché ‹‹va bene il destino del Novecento, ma qui bisogna portare a casa la pagnotta››; oppure ancora si legga il netto rimprovero di mancanza d'esattezza, di scientificità d'approccio, rivolto al signor Palomar dell'ultimo Calvino, risolvendosi la sua epistemologia ad un ‹‹frusto determinismo riduzionista››, in pieno contrasto con i nuovi orizzonti aperti dalla ricerca scientifica del Novecento.
E come non sorridere quando, chiedendo numi al venerato Alberto Moravia degli Indifferenti, La noia e dei Racconti romani, sulla possibilità che la descrizione del senso di perdita dell'uomo altoborghese metropolitano possa calzare o meno anche per l'abitante di ‹‹una provincia piccola e angusta››, si sente rispondere da Moravia che per malesseri esistenziali in ambiti suburbani o in aree di province inferiori ai 50.000 mila abitanti lo prega di rivolgersi ad altri autori come Lucio Mastronardi, Piero Chiara, Beppe Fenoglio, Alberto Bevilacqua. Un libro necessario, quest'ultimo di Gene Gnocchi? Forse sì, nella misura in cui le sue sgangherate colte prove di stile (che parodiano formule e strutture di tanto postmoderno letterario) ci consentono una pausa, sana boccata d'ossigeno, dalle tante presuntuose narratologie à la page di autori anagraficamente TQ (esordienti e non) che hanno sposato la crociata di fare letteratura scimmiottando una controstoria giovanil-sentimentale di questo ventennio berlusconiano.
Nel bifronte e fecondo segno della commista lezione della tanta vilipesa leggerezza calviniana e dell'umorismo acido di Ennio Flaiano, il libro di Gnocchi rappresenta un'autentica alternativa alla dittatura nella narrativa italiana degli ultimi anni degli iper-realisti e dei professionisti del senza trauma e della scrittura dell'estremo.
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