Nelle guerre civili spesso le due fazioni sono appoggiate da “supporter esterni”. Chi tra i belligeranti viene accreditato come vittima – dunque, viene giustificato nella sua lotta – riceve l’appoggio, non solo formale, della maggior parte della comunità internazionale. Ma per chi non si ferma a superficiali analisi, appare chiaro come una divisione netta in due schieramenti compatti sia ben lontana dalla realtà.
È infatti pretestuoso affermare che il popolo oppresso dal regime di Assad sia lo stesso in rivolta armata. A ben vedere, infatti, chi imbraccia le armi sono più o meno grandi gruppi che rappresentano interessi specifici ed hanno conflitti diversi col regime siriano. Un po’ come è accaduto in Libia: fintanto che esisteva la causa comune – abbattimento della dittatura – la rivolta pareva unita e compatta. Ma alla morte di Gheddafi i vari gruppi, esponenti di diversi interessi ed istanze, si sono presto sfaldati entrando in conflitto tra loro. Lo stesso pare avvenire in Siria, dove i gruppi armati sono molteplici, operativi in diverse zone del paese, in lotta per cause diverse, appoggiati da diversi “partner esterni”. Partner che hanno essi stessi interessi nell’ingerenza entro gli affari siriani: molti hanno parlato dall’esplosione della Primavera Araba dell’attivismo qatariano e di quello saudita. Se nei consessi internazionali Doha e Riad si sono schierate assieme dalla parte dei rivoltosi, in realtà la prima ha sempre appoggiato le formazioni vicine alla Fratellanza Musulmana, mentre la seconda – anche alla luce della sua fede wahabita, una sotto-famiglia del sunnismo – è stata supporter dei più integralisti salafiti.
Quindi sono in atto manovre geo-politiche al fine di appropriarsi di nuove e maggiori sfere d’influenza, ed è in questo che emerge l’attrito tra Qatar e Arabia Saudita. In questa scacchiera si inserisca anche la Turchia, la quale ospita ufficialmente la base dell’Esercito Libero Siriano, il braccio armato della rivolta ufficialmente riconosciuto dalla comunità internazionale e interlocutore privilegiato della stessa. Anche questo “accreditamento” ha delle ombre, dal momento che molte voci dal campo siriano si sono levate in contrasto all’ELS, lamentando la scarsa rappresentatività di quell’organizzazione rispetto ai “veri ribelli”. Gli interlocutori in Turchia sono spesso siriani in esilio da tempo, che hanno quindi perso il contatto con la realtà di Damasco degli ultimi anni.
Queste sono notizie frequentemente discusse da due anni a questa parte dalle varie testate mondiali, mentre ciò che vorrei aggiungere come tematica meno trattata è l’inaffidabilità e ipocrisia di chi – da fuori – si promuove come difensore dei ribelli siriani. Gli scheletri nell’armadio di ciascuno dei maggiori paesi coinvolti nei tavoli delle (tentate) trattative sono diversi, ed una semplice ricerca sulla rete può portare a galla le contraddizioni di ognuno. A titolo esemplificativo desidero mettere in risalto un paio di notizie recenti relative all’Arabia Saudita.
La prima evidenzia – a mio parere – l’inaffidabilità di Riad nel sostegno a quello che dalla comunità internazionale è stato avvalorato come unico interlocutore della rivolta (l’ELS, appunto). La scelta non è casuale: si è pensato che affidarsi a siriani in esilio da tempo, che hanno quindi maturato anni di contatti col mondo Occidentale ed hanno assorbito parte della cultura democratica in salsa europea siano più affidabili di ribelli incontrollabili e spesso vicini a gruppi figuranti nelle liste dei terroristi degli USA. Ora, tralascio l’importante tematica di come le ingerenze esterne portino spesso a privilegiare personaggi vicini alla mentalità/ cultura dei paesi esterni più che affini alle vere istanze dei cittadini in loco (chi ha interiorizzato principi occidentali può ancora presentarsi come esponente del popolo siriano, certamente distante da una simile cultura?), per notare come sarebbe tuttavia pericoloso appoggiarsi a gruppi dalla tendenza (se non addirittura dal conclamato carattere) terroristica – un noto esempio di quanto si rischi è ciò che è conseguito all’appoggio occidentale ai talebani in funzione anti-sovietica negli anni Ottanta: prima li si è armati poi, accorticisi di come questi si fossero autonomizzati, li si è dovuti combattere. Ebbene, cupi sospetti adombrano l’affidabilità di Riad: PressTv [PressTv] riporta che i servizi segreti sauditi sembrerebbero aver fornito armi non all’ELS, bensì ad al-Nusra, un gruppo etichettato come terrorista da Washington. Ora, parlo di sospetti e non di certezze poiché PressTv è una fonte iraniana, e Teheran è alleata di Assad, nonché nemica dell’Arabia Saudita dalla Rivoluzione del 1979. Nonostante ciò, ritengo comunque non del tutto improbabile che simili fatti siano realmente accaduti. Per comprendere la pericolosità di questo gruppo vi consiglio il seguente approfondimento: al-Nusra.
La seconda notizia è invece certa e scioccante: il 13 marzo sette giovani (tutti sulla ventina) sono stati giustiziati – fucilati – per rapina a mano armata in Arabia Saudita. Perché in questo paese vige ancora la pena di morte. Non solo: la mano d’opera sottopagata viene dall’Africa Sub-sahariana; gli uomini di colore – il 10% della popolazione – non hanno accesso alla giustizia, sono dunque privi dei basilari diritti civili non potendo avere un giusto processo in caso di condanna. La stessa sorte spetta alle donne ed ai musulmani di fede diversa dal rigido wahabismo. Giudici ed avvocati sono obbligati ad interpretare la Sharia secondo il dogma wahabita, e addirittura non esiste un codice civile/penale formale a Riad. La rapina che è costata la vita a questi giovani (appartenenti ad una minoranza del sud dell’Arabia Saudita – una tribù che, nonostante sia il 27 % della popolazione, non ha mai avuto nemmeno un rappresentante nelle sedi istituzionali) non ha visto alcuna vittima e addirittura i ladri hanno restituito l’intera refurtiva ai derubati. La vera ragione di questo crimine è stata la povertà: in Arabia Saudita la disoccupazione va dal 40% tra gli uomini al 80% tra le donne.
Non ci sono fonti ufficiali (causa cosciente mascheramento della notizia da parte del governo) sull’entità dei condannati a morte ogni anno nel regno saudita. Tuttavia diverse fonti portano a credere che si tratti di oltre un migliaio di persone (tutti i dati qui riportati li ho tratti dalla rivista Foreign Policy: Foreign Policy). A questo punto mi chiedo: come si può tacere l’ipocrisia che soggiace ad una dittatura che nasconde i crimini di casa propria per denunciare analoghe atrocità a casa altrui? Qual è la differenza tra l’oppressione del popolo siriano e quella del popolo saudita? È giusto continuare a parlare del regno wahabita come di uno storico alleato dell’Occidente e silenziarne i delitti per pura convenienza politica ed economica (ricordiamoci il fattore petrolio che rende così potente il peso contrattuale di Riad nelle relazioni internazionali)?