Un tempo volevo essere una cuoca provetta. Tutti i sabato mattina, equipaggiata di blocco note a quadretti e di un abbondante grembiule bianco con pettorina, immancabilmente stropicciato, andavo a lezione di cucina. L’ho fatto per un anno intero, con cieca testardaggine. Affettavo gli ortaggi con la precisione di un samurai e amalgamavo zucchero uova e farina come fossero i colori di una tavolozza d’artista. Mi sentivo inarrestabile e creativa, degna erede del più geniale dei cuochi, convinta che i miei manicaretti donassero delizia e godimento ai palati altrui. Quando ritenni che le ripetitive ricette del corso iniziavano a beffeggiare la mia maestria, chiesi, come regalo di San Valentino, il Cucchiaio d’Argento, un seriosissimo tomone di 1189 pagine, corpulento da occupare, da solo, un intero ripiano della cucina, il Gotha dell’arte culinaria o, se posso, La recherche trasposta sui fornelli.
“Al momento è del tutto inutile”, pontificò la maestra, bandendolo dall’aula a mo’ di libro proibito, “devi ancora sporcarti le mani. Non vedi che la maionese ti è di nuovo impazzita? Forza, riprova. Sbatti le uova e non dimenticare di girare sempre nello stesso verso”. Le altre allieve sfumavano brasati con baroli d’annata, imburravano e infarinavano formine di muffin al cioccolato con granella di cardamomo, gli aromi delle loro ghiottonerie si sprigionavano con insolenza nell’aria, mentre io continuavo a impiastricciarmi le dita con albume d’uovo, sudando le sette camicie dietro un falsissimo e serafico aplomb.
“Non va”, commentò un giorno la maestra, osservando mestamente il triste intruglio, poi, del tutto a sorpresa, esclamò: “e sia, o la va o la spacca!”, restituì il mio tomo, tenuto sino ad allora sotto sequestro, e mi propose di cucinarle un piatto a mio piacimento. A quel punto mi premetti l’enciclopedico tomo al petto, e con la consapevolezza di avere tra le mani l’intero scibile culinario, mi accinsi con emozione a scegliere una ricetta. Quando la maestra sospirando mi esortò a riordinare gli attrezzi perché “non hai concluso niente, sì, insomma, sono due ore che inizi ricette nuove ma non ne hai portata a termine nessuna”, aprii con onestà gli occhi sui miei sogni di gloria.
Mi ritirai dal corso, nascosi il Cucchiaio d’argento nel ripiano più inaccessibile della casa (il solo vederlo mi procurava un dolore cocente, simile a una scottatura del quarto grado), e senza pensarci due volte comprai all’edicola della stazione (scelta oculata, la stazione, visto l’anonimato imperante): I menù di Benedetta di Benedetta Parodi. Devo ammettere che averlo visto per mesi e mesi primeggiare nella classifica dei libri più venduti mi aveva provocato una leggera irritazione (gelosia canaglia!) e che il sorriso onnipresente e grazioso della cuoca/scrittrice in copertina mi suscitava un’inevitabile nota di scetticismo ma tant’è, mi sono detta infine, se tante persone l’hanno scelto, un motivo valido ci sarà. Tuttavia, essendo poco incline a far parte di un gregge, mi sovvenne per un secondo che ad alcune dimostrazioni di pubblico plauso non sempre corrispondono qualità e competenza, e tornata a casa, ci fu chi instillò ancora di più il germe del dubbio. “Ci sei cascata anche tu”, dissero, come se avessi comunicato l’intenzione di partecipare alle selezioni per il Grande Fratello 148. Nicchiai ma nei momenti di libertà sfogliavo il libro, annotando mentalmente ricette dai nomi spiritosi e stuzzicanti: Cena perfettina per suocere, capiufficio e amiche criticone, Cenetta light per gli amici patiti del fitness e Menù casalingo ma alternativo, in altre parole ricette semplici, pratiche, sfiziose e perché no veloci. Quando ho iniziato a metterle in pratica, (e soprattutto quando ho realizzato che ero in grado di metterle in pratica!), una domanda si è fatta strada dentro di me: “ma perché ho aspettato tanto?”.
Quel che è certo è che quando uscirà il prossimo volume non andrò più fino alla stazione per comprarlo, entrerò con orgoglio e a testa alta nella libreria sotto casa.
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