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"L'isola dei naufraghi" di Kirino Natsuo

Creato il 24 marzo 2011 da Sulromanzo

L'isola dei naufraghi"Trentacinque uomini e una sola donna, reclusi su un'isola deserta. Un Harem capovolto, dove la libertà assoluta rivela la natura profonda del cuore umano. E tutta la sua accecante crudeltà"

 

Sembrerebbe la trama per un nuovo reality, un incrocio tra "L'isola dei famosi" e "Uomini e donne". Invece è la quarta di copertina del nuovo libro di Kirino Natsuo. Il titolo di questo libro dice tutto: la storia di naufraghi giapponesi e cinesi, arrivati in momenti diversi, che tentano di sopravvivere su di un'isola deserta fra speranze di essere salvati e quotidianità.

Kiyoko è la regina assoluta di questo regno insulare. Desiderata da tutti gli abitanti di sesso maschile in quanto unica donna, ma al contempo sposata, in primis con il marito ufficiale, che morirà in circostanze misteriose, e poi ogni due anni con un uomo scelto a caso da una lotteria. Questa estrazione casuale del marito è una forma primitiva di equilibrio tra le forze in gioco ma verrà vanificato dall'"infedeltà" di Kiyoko.

Quando si tocca l'argomento della sopravvivenza entrano in gioco dei fattori sociologici che non possono essere trascurati durante la narrazione. A mio parere, l'autore che si complicò di più la stesura di un romanzo fu William Golding con il suo "Il signore delle mosche": scegliendo come protagonisti, della sua storia di naufragio su di un'isola disabitata, dei bambini, scelse di prendere una fetta di società, di pulsioni e di paure ben precise. Non a caso prese il premio Nobel. Invece la Kirino sembra aver scelto un'accozzaglia di persone tutto sommato mediocri e averle buttate al centro di un'avventura che potrebbe avere molto da dirci.

Tutti i nodi cruciali del romanzo sono poi frettolosi e affidati a persone che perdono il loro status di leader per sciocchezze o a persone che senza un motivo significativo perdono la ragione. Ora, la pazzia non può essere affidata, come tale, a leggi ben precise, ma non per questo può essere usata a sproposito per giustificare ogni singolo evento che accade su quest'isola.

Anche alcune delle più basilari regole di sopravvivenza vengono poi clamorosamente bypassate senza alcuna spiegazione logica: se un gruppo tortura gli altri abitanti dell'isola (in più per una falsità) è chiaro che prima o poi scatterà una ribellione, visto che si trovano a vivere ad uno stato di natura in cui vige la regola dell'“occhio per occhio”. Qui invece come se niente fosse ognuno torna tranquillamente alla propria vita di sempre. Amici come prima.

Una cosa poi che non torna, drammaturgicamente parlando, è il perché tutti i naufraghi della zona di mare compresa tra Cina, Giappone e Filippine finiscano (in momenti diversi a distanza anche di mesi) su quest'isola. O siamo nel triangolo delle Bermuda o l'isola di Lost si è spostata proprio lì, perché se l'autrice decide che quest'isola attrae tante persone, poi un motivo al lettore lo deve dare, altrimenti la narrazione rimane incompleta o, ancora peggio, è una cosa a cui non si è pensato.

Un'idea che poteva funzionare è la critica alla società giapponese, realizzata trasportando alcuni elementi di estrazione sociale diversa nella vita selvaggia ed esaltandone i difetti, ma è un'analisi che passa in secondo piano e rimane sterile.

Dunque il giudizio su questo libro è negativo, non soltanto perché si tenta di avvicinarsi a un genere che secondo me è molto difficile, soprattutto per la difficoltà di criticare aspetti viscerali dell'animo umano in maniera sensata e non abbandonandosi a pregiudizi, ma in particolare perché i punti di forza di questo racconto vengono tralasciati per divagazioni minori che alla fin fine non portano nulla.

“Un signore delle mosche” muto, che non ci dice niente di nuovo.

Quasi quasi vado a rivedere Lost.


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