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L’isola e il sogno

Creato il 25 giugno 2011 da Fabry2010

L’isola e il sogno

Paolo Ruffilli, L’isola e il sogno, Roma, Fazi, 2011

di Pasquale Vitagliano

Più la nave si avvicinava alla costa e di meno si coglieva l’insieme. (…) le tinte ambrate, il pallido verde, i granulosi grigi sbiaditi del risorgente mattino. Perché mai gli piaceva vegliare le ore cristalline del l’alba? (…) Nella sua vita, del resto, era riuscito a dormire così poco… E, anche dormendo, non sapeva davvero cosa fosse il riposo. (…) Alla vista dei luoghi, per Nievo scattarono netti i ricordi. L’odore denso e grumoso che inebriava l’intera città: gelsomini, aranci, mirti, cedri, oleandri. L’odore, sì, ma anche il sapore. L’insonnia è il demone di chi possiede il raro e fascinoso dono del racconto. La scrittura stessa dunque s’impossessa dell’autore esaltandone i sensi, come sa bene chi ne resta preda. Ippolito Nievo non è stato solo un memorialista dell’epopea risorgimentale. E’ stato uno scrittore dei cinque sensi. Gli stessi che sperimentiamo prendendo il largo in questo viaggio dentro il nuovo romanzo di Paolo Ruffilli.

Io nacqui Veneziano ai 18 ottobre del 1775, giorno dell’evangelista san Luca; e morrò per la grazia di Dio Italiano quando lo vorrà quella Provvidenza che governa misteriosamente il mondo. Ecco il morale della mia vita. E’ splendido l’incipit de Le confessioni. Anzi, profetico in questo suo puntare alla localizzazione concreta e contingente della propria esistenza. Addirittura, aperto oggi a sequel imprevedibili qualche tempo fa. Come (ri)-nascerebbe oggi Ippolito? In realtà, la domanda cade subito, anzi esce fuori dallo spazio e dal tempo di questo romanzo. La parola Italia viene usata una sola volta. Il viaggio di Ippolito in Sicilia per recuperare la documentazione contabile dell’Intendenza di Palermo, cui lui era stato messo a capo da Garibaldi, si svolge tutto in un’atmosfera sospesa che finisce per sciogliere ogni riferimento spazio-temporale. Il rapporto con l’elemento incontenibile dell’acqua, nel galleggiamento sul suo manto mobile, poteva essere paragonato alla perdita delle coordinate imposta dall’amore alla vita normale di ogni giorno.

Questa liquida esperienza del limite e della contraddizione rende Ippolito persino più avanti della modernità ottocententesca. Contro questa modernità egli si scontra in Sicilia. Palermo è un termine: è la primavera, dopo l’inverno. E’ il riposo, dopo la fatica. E’ il giorno dopo la notte, l’ombra dopo il sole, l’oasi nel deserto, scrive Alexandre Dumas, che l’avventura dei Mille visse in prima persona, e alle cui Impressions Ruffilli si richiama. Più drammaticamente Palermo, come tutta la Sicilia, è il paradigma della irresolutezza; il luogo dove la coesistenza immobile degli estremi porterà Leonardo Sciascia a definire l’isola la metafora della impossibilità di cambiare la storia con le idee. L’Italia è spezzata in due prima ancora di nascere. Le speranze di Ippolito sono già ridotte a rimpianti. Forse l’Unità poteva realizzarsi solo per longitudine, sotto la linea d’ombra del Levante. Una leggenda permette di azzardare un’inedita versione dell’identità nazionale. L’antico padre Adriatico che stringe un patto con i pescatori e i marinai, davvero uguali da Chioggia fino ad Otranto. Chi era risalito su dal ventre d’acqua doveva ricordarselo (…). Risparmiato la prima, non avrebbe potuto più contare sulla generosità del mare la seconda volta. La Sicilia oggi segna il confine. Non è più, come era stata un tempo, il luogo in cui si erano mischiate tutte le razze: il sud e il nord, il sangue dei mori e quello dei normanni. Come ci fossero, proprio lì, le condizioni al massimo ideali e la temperatura giusta di fusione. La Sicilia è troppo lontana da Venezia, dove i sogni e le passioni si consegnano al continuo assestamento di maree e correnti. La Sicilia è diventata la Patria dei La Farina.

L’idea improvvisa di fermare la sua età e la vita: il sogno di restare ancorato dentro il tempo, lì sul mare fuori dal porto, in vista dell’isola felice. (…) “Viva la sospensione”, gridò guardando la scia segnata sul turchino. Ma lo sapeva che era impossibile. Niente restava mai in sospeso per davvero. Tutto finiva. Svanite le illusione resta il mare, biblico, omerico, avventuroso. Su dalla tolda, si godeva un’ampia vista intorno. Il porto era animato: scialuppe e tartane, velieri a battelli, imbarcazioni di ogni forma e dimensione. (…) Uno spettacolo che gli ridava l’energia. Così Ippolito esce dalla Storia ed entra nella dimensione del sogno. La sua storia viene sottratta alle tristi memorie di combattenti e reduci, per diventare l’epopea tragica narrata nei romanzi di mare. Ippolito come Achab, Leonardo, il suo fido attendente, da lui ha imparato a tirare i lupara, come Queequeg, il ramponiere. Messo di fronte alla scelta tra Storia e Romanzo, Ippolito sceglie il secondo. Tra l’amore per Bice, bella, pallida e… quieta, e quello per Palmira, gloriosa e sorridente, catturata bambina dai pirati, e poi venduta ad un sultano, sceglie la seconda. Al melodramma sceglie l’Avventura, le sue felicissime avventure della testa. Ed è una scelta eretica nell’Italia di Manzoni. La lingua de Le Confessioni è infatti antimanzoniana, in favore di una lingua viva e composita, che fonde codici dialettali e registri diversi, che accosta toni aulici e linee colloquiali, narrazioni drammatiche e immagini grottesche. “Nievo ha un fascino romanzesco che si trova nelle letteratura straniera”, scrive Calvino, affiancandolo ad Hemingway. Questo di impastare generi e di intrecciare linguaggi è il sacrilegio letterario di Ippolito Nievo. Parallelo all’eresia garibaldina di rendere civili gli italiani.

Alla fine, inseguendo il sogno, Ippolito viola il patto di misericordia con l’Adriatico. Come Giona o Ismaele, oppure come Fleba il Fenicio della Terra desolata di T. S. Eliot, egli ha già fatto l’esperienza della morte in acqua. Era accaduto nel mare di Grado, quattro anni, prima, durante una vacanza estiva con l’amico Cesare Cologna. Era stata una scoperta sorprendente, una condizione beata, insieme dentro e fuori di se stesso. Ma alla fine da questo galleggiamento nel nulla era riemerso, prefigurando che la prossima esperienza sarebbe stata per lui l’ultima. Infatti, di ritorno da Palermo, l’Ercole, la sua nave, tradendo il proprio nome, si trova senza alcuna forza dentro una tempesta perfetta. La nave si inclinava avanti come gettandosi nel vuoto, dentro l’abisso scavato dall’uragano in mezzo al mare, e ogni volta trovava un muro su cui urtava. E’ arrivata la fine. Questa volta, almeno, il romanzo, è scritto. Il vortice inghiottiva ferraglie e tavole, rimescolando la sabbia e l’aria intorno. Portandosi nella sua pancia d’acqua le vite, i sogni, le ansie, le paure, i dubbi, le speranze, di tutti quanti i passeggeri.

Il romanzo di Paolo Ruffilli vive di questa sospensione tra storia e immaginazione. Dentro le suggestioni di un’opera classica, mescola le vicende di Ippolito Nievo con le infinite avventure di mare narrate dalla letterature di ogni tempo. Con un magico effetto a lettura conclusa stentiamo a riconoscere l’autore, se Ruffilli, lo stesso protagonista, o Melville. Persino l’Italia, in questo momento di cerimonie patriottiche, perde ogni connotazione storica per diventare un luogo di sogni. Un’isola irreale, tanto più adorata, quanto più irraggiungibile. Appunto, tutto rigorosamente autentico. Tutto rigorosamente immaginario.



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