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L’Italia e le trasformazioni nel Mediterraneo

Creato il 18 luglio 2014 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR
L’Italia e le trasformazioni nel Mediterraneo

Sul bacino del Mediterraneo come terreno di elezione per il dinamismo del nostro sistema Paese e per la tutela della sua sicurezza, tutto è stato probabilmente già detto e scritto da tempo. L’Italia vi agisce dall’interno, perché geograficamente ne costituisce la linea mediana che lo attraversa e lo divide in due quadranti. Da sempre profitta delle sue opportunità; sconta le sue tensioni; vive in presa diretta le sue vicende. Ne siamo a tutti gli effetti un attore interno, e perciò abbiamo un interesse diretto e immediato alla sua crescita e alla sua stabilizzazione. L’innovativa scelta di Matteo Renzi di svolgere a Tunisi la sua prima visita all’estero da Presidente del Consiglio lo conferma in modo simbolico. E lo svolgimento a Roma, due giorni dopo, della grande conferenza internazionale sul sostegno alla nuova Libia presieduta dal neo Ministro degli Esteri Federica Mogherini alla presenza di Kerry, Lavrov, Fabius, Steinmeier, Davutoğlu ed altri protagonisti internazionali, scandisce la consapevolezza del nostro Paese di dover assumere a tale titolo speciali responsabilità.

Ma Mediterraneo e Medio Oriente vivono rotture e discontinuità che li stanno modificando in profondità. Questi cambiamenti ci inducono ad aggiornare i nostri interessi nazionali e ricalibrare il nostro ruolo regionale, nel rispetto di alcune compatibilità sistemiche. Ciò presuppone un’attenta lettura delle rivoluzionarie dinamiche che oggi solcano il mondo arabo. L’analisi precede e indirizza le scelte politiche. Alla luce della nostra lettura degli eventi, ci chiediamo quotidianamente cosa fare, dove e come.

Le semplificazioni possono sedurre ma mettono fuori strada: gli sviluppi della riva sud non erano una primavera democratica tre anni fa e non configurano un inverno islamico oggi. Generici parametri pertinenti allo specifico sviluppo storico dell’Occidente, come rivoluzione, democratizzazione, contrapposizione fra laici e fondamentalisti, spiegano poco delle dinamiche in corso e non ci sono utili a promuovere i nostri interessi. Bisogna smarcarsi dall’influenza concettuale di narrative pigre, o peggio strumentali al perseguimento di interessi altrui. È necessario recuperare parametri spazio-temporali che le vulgate prevalenti tendono a omettere, velando la comprensione della realtà.

Il “risveglio arabo” non è un avvenimento ma un processo complesso, che si iscrive nella durata. Le situazioni di partenza sono diverse da Paese a Paese; le forze in campo non sono del tutto omologabili e l’interazione fra di loro, e fra loro e le forze esterne, produce di volta in volta dinamiche specifiche, spesso profondamente diverse. Alcuni aspetti generali sono però comuni all’insieme degli sviluppi in corso. Più che stagioni atmosferiche, essi rivelano una profonda mutazione sociale e antropologica, innescata dalla trasformazione di dati demografici e educativi, che ha rotto drammatici circoli viziosi. Il suo bilancio storico potrà essere tracciato solo fra molti anni. Giovani istruiti, frustrati dalla stagnazione economica, dalla corruzione, dalle disuguaglianze e dall’assenza di prospettive politiche, saldano la loro insoddisfazione con quella dei disoccupati e dei lavoratori sottopagati. Ampi strati sociali reclamano dignità umana, economica e politica: questa rivendicazione non è neutrale né rispetto ai rapporti di potere costituiti, né rispetto agli esistenti modelli di relazioni con il mondo esterno e in particolare con l’Occidente.

Non è nata un’articolata cultura democratica, ma si è sviluppata una cultura della contestazione che non accetta più imposizioni dall’ordine costituito. Il mondo delle corrotte leadership pseudocarismatiche è perciò finito e non sarà possibile ripristinarlo. Ma i cambiamenti non seguono una traiettoria continua, si scontrano con spigoli ed angoli acuti, avanzano perciò attraverso progressi e successivi ripiegamenti. In questo momento le lancette puntano in direzione della frammentazione.

La rottura dei meccanismi autoritari svela l’assenza di coerenti strutture statali o la precarietà delle istituzioni formali. L’Islam è solo uno dei catalizzatori delle rivolte, accanto alle rivendicazioni di libertà, di democrazia e di giustizia sociale. Ma nel vuoto dei punti di riferimento che segue alle rivolte, esso diviene per ampie fasce della società la principale àncora identitaria, in nome del suo tradizionale ruolo di critica tanto dei meccanismi di subordinazione coloniale quanto della corruzione dei regimi. L’Islam si rivela il più potente fattore di aggregazione politica, e si afferma nella maggior parte delle consultazioni elettorali che seguono la rottura dell’ordine costituito. Tuttavia le dirigenze che emergono da queste elezioni, per lo più islamiche moderate, palesano forti difficoltà a governare. Ovunque bisogna scrivere nuove regole del gioco condivise e reciprocamente legittimanti, ma latita lo spirito di compromesso; ciascuno inclina ad imporre egemonicamente il proprio punto di vista. Mancano corpi intermedi realmente rappresentativi degli interessi sociali. Solo la Tunisia è ora riuscita, faticosamente ma brillantemente, a scrivere una Costituzione condivisa, basata sul compromesso politico fra le diverse anime del Paese; non a caso c’è riuscita anche grazie all’attiva mediazione delle parti sociali.

In generale, però, il quadro politico si frammenta; sfugge l’autorità di governo sul territorio; vacilla il controllo di confini che sovente si dimostrano incoerenti rispetto alle strutture profonde delle affiliazioni claniche o ai dati strutturali dell’interazione economica. Le due grandi sfide della regione sono dunque immateriali: caos interno e vuoto geopolitico. Determinano un acuto problema di destabilizzazione regionale che investe in pieno l’Italia in quanto perno della macroregione.

In questo quadro in movimento si innestano ulteriori tensioni indotte dalle politiche di potenza di ambiziosi attori regionali in forte competizione fra loro. Arabia Saudita e Iran si disputano il ruolo di principale potenza mediorientale, declinando tale conflitto nei termini dell’antica divaricazione tra Islam sunnita e sciita. All’interno del fronte sunnita, si approfondisce un’ulteriore frattura tra Arabia Saudita da un lato e il tandem Turchia-Qatar dall’altro, declinata in termini di attitudine verso la Fratellanza Musulmana, cioè verso un Islam politico incline ad affermarsi attraverso la logica orizzontale del voto popolare anziché attraverso più tradizionali meccanismi verticali di legittimazione dell’autorità. Inoltre, la galassia jihadista in parte gioca una partita autonoma per l’affermazione di un Califfato islamico o di regimi teocratici in ambiti territoriali definiti; in parte viene strumentalizzata da altri attori; in ogni caso alimenta e fiancheggia reti criminali dedite a traffici di ogni tipo. In tale pericoloso contesto, Israele aggiorna la perenne partita della propria sicurezza e sopravvivenza come Stato al contempo ebraico e democratico; mentre gli attori esterni proiettano le proprie preoccupazioni in materia di sicurezza e i propri interessi energetici e finanziari.

La tela di fondo degli interessi mediterranei italiani di lungo periodo non è cambiata. Alcuni caratterizzano la vocazione esterna della Penisola da molti secoli. La globalizzazione ha rimesso il Mediterraneo al centro di un sistema. Lo ha reso di nuovo snodo cruciale, fra Oriente che produce e Occidente che consuma: lo solca quasi un quarto dei flussi commerciali planetari. Intercettarli, aprendo nei porti i containers, significa avviare una catena di lavorazione che porta valore aggiunto e punti di PIL e di occupazione. In una tale logica, la visione italiana del Mediterraneo integra anche la dimensione adriatico-ionica, e quindi balcanica, che promuoviamo tenacemente nell’ambito delle strategie regionali della UE.

Naturalmente da Mediterraneo e Medio Oriente dobbiamo anche garantirci approvvigionamenti energetici vitali per la nostra economia di trasformazione, puntellando ed espandendo i partenariati energetici con vari Paesi dell’area.
L’oggettiva dipendenza energetica alimenta ulteriormente il nostro fortissimo interesse a stabilizzare l’area, contenendo flussi illegali di ogni tipo che in questa fase sfruttano il vuoto e il caos. Le minacce alla sicurezza del Mediterraneo investono direttamente l’Italia e tutto il continente, come cerchiamo di far comprendere, spesso senza successo, ai nostri partner europei, tuttora inclini a privilegiare altre, meno urgenti, direttrici geopolitiche illudendosi di potersi isolare dalle ondate di destabilizzazione che periodicamente investono il continente da sud.

Quando parliamo di sicurezza, tendiamo ad assortire il sostantivo con l’aggettivo “sostenibile”. Sappiamo infatti per certo che meccanismi di contenimento dei flussi clandestini e dei traffici illegali non risolveranno a termine i problemi di sicurezza nel Mediterraneo, e anzi verranno prima o poi travolti, se non interverrà una crescita sostenuta della riva sud che attenui il differenziale di ricchezza e sviluppo fra le due sponde del bacino. La riva sud è un macrocosmo di oltre 300 milioni di persone, con un’alta percentuale di giovani, ricco di materie prime e di capacità umane in crescita: se nel lungo periodo il processo di modernizzazione che si è messo in moto spezza definitivamente il circolo vizioso miseria-corruzione-repressione-estremismo per innescare lo sviluppo, allora il mondo arabo diventa la quarta economia emergente del pianeta e, anziché flussi umani alla disperata ricerca di dignità e benessere, vi si sviluppa un mercato bisognoso di beni di consumo e infrastrutture.

Il Mediterraneo smetterebbe di essere frontiera e tornerebbe circuito, come nelle epoche più felici della storia della Penisola. E se l’Italia torna molo del Mare Nostrum, la sua stessa struttura geopolitica interna recupera coerenza: il Nord si collega a un’area congeniale all’espansione alle sue imprese; il Sud rimette all’ordine del giorno la questione delle sue infrastrutture strategiche; e si innesca un veicolo d’integrazione dei nuovi Italiani anche attraverso l’emigrazione circolare.

È questa la visione strategica di lungo periodo che deve guidarci: un progetto nell’interesse del Mediterraneo e non di aree esterne ad esso, per il suo sviluppo e non per il suo controllo. Dobbiamo pensare il Mediterraneo dal suo interno, cioè da baricentro geografico e culturale del bacino. Da qui deriva la peculiarità dell’approccio italiano alla regione. Con conseguenze estremamente concrete. Ad esempio, l’Italia ha interesse ad acquistare le risorse energetiche indispensabili al proprio sistema produttivo, ma non ad assumerne il controllo a spese dei Paesi che le posseggono: è infatti nostro oggettivo interesse che esse vadano anche a beneficio dello sviluppo delle economie locali, che favorirà il nostro stesso sviluppo.

Nel mondo dell’informazione globale e istantanea, la narrazione non è più solo strumento di influenza, ma anche percezione che gli altri hanno di noi. Nostro modo di essere di fronte agli altri. Non fallire la nostra narrazione del Mediterraneo è cruciale. Essa, oltre a integrare i principi di dignità umana, libertà, stato di diritto, graduale sviluppo democratico, può valorizzare approcci e sensibilità peculiari dell’Italia: dialogo interculturale e interreligioso; reale condivisione di tecnologie e visioni strategiche; concetto di rete; principio di ownership locale dei processi e delle risorse declinato non come formula liturgica ma come oggettivo interesse nazionale italiano. Il concetto di diritto di tutti allo sviluppo sostenibile non ci crea imbarazzi e ci è anzi congeniale. E quando ci rapportiamo ai nostri vicini mediterranei, più facilmente di altri europei riusciamo a evitare la rimozione inconscia del bilancio del colonialismo nei rapporti fra Europa e mondo esterno.

Su un piano più propriamente geopolitico, l’affermazione di idee forti e di analisi originali delle sfide in corso, rafforza la nostra generale credibilità e rende di nuovo l’Italia punto di riferimento. Alla luce della nostra analisi della situazione in Siria, ove l’iniziale movimento di protesta civica si è da tempo trasformato in guerra per procura alimentata dalle ambizioni di attori esterni, abbiamo ad esempio affermato con chiarezza che un eventuale intervento militare al di fuori della cornice ONU non avrebbe risolto i problemi e avrebbe rischiato di consegnare il Paese o parti di esso a componenti jihadiste e terroriste che alimentano l’instabilità e costituiscono una minaccia diretta per l’Occidente. Del resto, Emma Bonino aveva chiaramente scandito che non esiste una soluzione militare alla crisi e che in Siria ci sono troppe armi e non troppo poche. La nostra voce è stata ascoltata, e la nostra chiarezza apprezzata da tutti, soprattutto dagli alleati più stretti, anche perché ci riconoscono che non siamo portatori di agende nascoste ma solo di un evidente interesse diretto alla sicurezza e alla stabilizzazione.

Anche sul nuovo corso iraniano del pragmatico Rohani, l’Italia si è esposta con una linea originale e con un movimento tempestivo: il Vice Ministro Pistelli è stato il primo esponente politico occidentale a recarsi a Teheran all’inizio di agosto 2013, subito dopo l’insediamento del nuovo Presidente, per verificare la natura degli sviluppi in corso e inviare un segnale di attenzione alle forze favorevoli al dialogo: intuizione oggettivamente esatta, visto che poco dopo si è sbloccato il negoziato nucleare fra i 5+1 e Teheran, con la definizione di un accordo interinale, e che a settembre Rohani è stato la star assoluta dell’Assemblea Generale dell’ONU e il leader più gettonato per incontri bilaterali a margine dell’evento. Nell’audizione del 18 marzo scorso alle Commissioni Esteri riunite, il Ministro Mogherini ha confermato «piena continuità» con questa linea «molto lungimirante assunta dal precedente Governo». Ancora una volta, l’analisi è decisiva: leggere in anticipo alcuni sviluppi per saper dire cose originali, mette anche al riparo dalla tentazione di cercare visibilità alzando a dismisura i toni per rimodulare le parole d’ordine altrui.

Naturalmente la narrazione non è l’unico né il principale nostro strumento d’azione nel Mediterraneo. Serve anche un’azione concreta e immediata. In questa fase, la prima priorità dell’Italia nel Mediterraneo è contrastare il vuoto e il caos. Pur nella carenza di mezzi che da anni ci siamo abituati a dare per scontata, ci sono cose che sappiamo fare bene; siamo meglio di altri attrezzati al dialogo e alla comprensione, e sappiamo cambiare idea quando la forza della realtà frantuma schemi teorici e rappresentazioni di comodo.

Il primo strumento per promuovere la stabilizzazione della riva sud è oggi la formazione a tutti i livelli: mettere le nuove classi dirigenti in condizione di gestire la cosa pubblica e di garantire la sicurezza interna e regionale; suggerire a tutti gli attori la ricerca di compromessi e la legittimazione reciproca; dialogare con le società civili per stimolare lo sviluppo dei corpi intermedi. In tale contesto, mappare poteri reali e forze vive della società è la condizione per contribuire a strutturare e responsabilizzare. L’Italia fornisce assistenza e formazione a tutti i Paesi in transizione, con cui intrattiene un serrato dialogo politico. Ma l’intergovernativo è solo uno dei livelli su cui agire. Vanno create reti di formazione e di condivisione col contributo di tutti: associazionismo, istanze parlamentari, partiti, sindacati, autonomie locali, imprenditoria. Il Ministero degli esteri si sforza di stimolare azioni di questo tipo e di fornire loro un quadro di riferimento coerente.

Per perseguire invece l’obiettivo di più lungo periodo del decollo economico duraturo della riva sud, occorre riuscire a mobilitare investimenti e capacità imprenditoriali in quelli che si annunciano come i settori strategici dello sviluppo nel XXI secolo: energie fossili e rinnovabili, infrastrutture di trasporto e di comunicazione, sanità, istruzione.

L’efficacia di questo articolato disegno sarà tanto maggiore quanto più sapremo mobilitare una massa critica di risorse e di volontà interessate alla stabilizzazione e alla crescita del Mediterraneo. Va anzitutto costantemente verificata la compatibilità delle nostre azioni e dei nostri interventi rispetto ad alleanze e quadri di riferimento tradizionali della nostra politica estera, per evitare le trazioni indesiderate e pericolose che il vuoto e il caos possono alimentare. L’interesse di Washington a stabilizzare la retrovia mediterranea nel momento in cui gioca cruciali partite sul piano globale e geofinanziario, ci garantisce la simpatia del nostro maggiore alleato per la nostra complessiva impostazione. Al contempo, è assolutamente necessario persuadere l’Unione Europea a prendere atto che la svolta storica che si consuma lungo le frontiere meridionali del continente impatta per tanti motivi la tenuta delle nostre stesse società. A tale riguardo, i Paesi mediterranei della UE sono i nostri migliori alleati per cercare di indurre l’Europa a presentare ai popoli della riva sud un’offerta politica all’altezza della sfida epocale cui essi si trovano di fronte: sull’alternativa fra modelli di società aperti oppure chiusi come chiave per accedere alla modernità e affrancarsi da antiche subordinazioni, l’Europa dovrebbe avere qualcosa da dire; la credibilità del suo discorso è legata alla generosità e lungimiranza dell’offerta, ma anche alla capacità di non accompagnarla con atteggiamenti paternalistici e approcci autoreferenziali.

Per il resto, dobbiamo sforzarci di persuadere della bontà del nostro progetto tutti gli attori della regione: dai Paesi protagonisti del risveglio arabo, a quelli capaci di alimentare la crescita del Mediterraneo con capitali, tecnologie, modelli metodologici: a termine, Cina, Paesi del Golfo, Turchia e lo stesso Israele hanno tutti interesse alla tessitura di reti di solidarietà, di cooperazione e di mutua sicurezza nel Mediterraneo.


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