Magazine Cinema

L’OCCHIO NEL LABIRINTO (1972) di Mario Caiano

Creato il 23 agosto 2009 da Close2me
L’OCCHIO NEL LABIRINTO (1972) di Mario CaianoPrologo tra i più ispirati del cinema thriller/giallo Italiano: una fuga, una corsa all’interno di strutture dalle linee surrealiste, enfatizzata ancor più da grandangoli ed un montaggio frammentato. Inizia così l’incursione nel cinema psicanalitico del regista di Il mio nome è Shangai Joe, I racconti di Viterbury e Milano Violenta.
"Julie, una ragazza straniera abitante a Milano dove da tempo è curata dallo psicanalista Luca Berti, che è anche suo amante, una notte ha un incubo rappresentato dalla sadica morte subita dal suo amante. In effetti, il medico è scomparso: varie volte viene indicata a Julie la chiave per risolvere il mistero: a tale fine, la ragazza si sposta da un luogo all’altro, e durante le ricerche ha modo d’incontrarsi anche con persone strane e abiette. Ma pure Julie compie un’azione indegna."
Ad accettare il compromesso con una trama tanto capziosa quanto a tratti semplicemente inverosimile, il film del bravo regista romano lavora con efficacia sulla forza misterica delle situazioni e soprattutto della protagonista – un’eccellente Rosemary Dexter, già apprezzata in Justine di Franco - affiancata a sua volta ad un mostro sacro come Adolfo Celi. Le location dell’isola d’Elba sono un geniale controcanto agli interni asettici e soffocanti del nosocomio di partenza. Posti quindi dall’onirismo contrapposto, popolati da personaggi indefiniti in perenne stand-by da tintarella (soluzione visiva peraltro esplicitamente ripresa ed abusata in Canicola dell’austriaco Ulrich Seidl, leone d’argento al Festival di Venezia nel 2001). La coerenza narrativa in sostanza lascia il tempo che trova, tuttavia l’opera si apprezza per quell’estetica ultrapop esplicitata a piene mani da Caiano: onnipresenti occhialoni da sole, camicie ed interni caratteristici del dei primi anni ’70, senza dimenticare la riuscita colonna sonora free jazz del maestro Roberto Nicolosi.
Punto davvero dolente l’interpretazione monocorde di Alida Valli (Gerda). Poco incisiva ed effettivamente sprecata, avrebbe meritato probabilmente battute di maggiore impatto, riconoscendole un ruolo più definito, come sapranno fare pochi anni dopo Mario Bava, Alberto De Martino o ancora Giulio Berruti nel suo cult Suor Omicidi (1979).

Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :