Mi ha portato il tè.
Mi odia, ma il tè lo prepara sempre in orario.
La tazza di Meissen dalla forma perfetta, rose rosse e un filo dorato sul bordo, come piace a me. Il cucchiaino posato sul lato destro del piatto, come le ripeto sempre. All’inizio metteva il cucchiaino sul “suo” lato destro e questo mi faceva andare in collera: come puoi pensare di servire il tè in questo barbaro modo? Ma sono paziente: so che viene da un posto dove in effetti “sono” barbari. Comunque, a furia di ripeterglielo, ha imparato. E così tutto il resto: mesi, mesi di continui rimproveri. Non è che solitamente io sia così puntigliosa, ma lo faccio per il suo bene, per fare di lei una cameriera almeno decente.
E invece di essermi grata, mi odia, ne sono certa.
Quando le ho detto di passarmi il tovagliolino, mi ha guardata in modo eloquente, come se pensasse qualcosa di maligno. Mi sono sempre chiesta se pensano, quelli come lei. Voglio dire, è chiaro che siamo tutti esseri umani, ci mancherebbe. Però non c’è dubbio, hanno tutto un altro modo di vivere, laggiù; hanno costumi strani e non sanno neanche cosa significhi la civiltà. Quando lei è arrivata qui, d’altronde, era una poveretta e le ho dato lavoro per pura generosità.
Però adesso sono sicura che mi odia. Non conosco i motivi, ma glielo leggo in ogni suo atteggiamento: è rigida e trema quando mi si avvicina, e tiene gli occhi bassi. Quando li solleva, le scopro sempre uno sguardo dove la stupidità si mischia alla cattiveria in maniera bestiale. Non sa quanto assomiglia al cane del giardiniere, in quei momenti.
Avvicino la tazza alle labbra senza dirle nulla, ma improvvisamente mi attraversa un pensiero. Il liquido dorato è stranamente torbido, e l’odore è diverso dal solito. Forse è l’Oolong Red Robe che dà questo colore? Ma non voglio chiederle se ha usato un tè diverso: innanzitutto perché non lo confesserebbe mai, sa che nel pomeriggio prendo sempre l’Assam.
Ma soprattutto perché saprebbe che ho capito.
Se c’è qualcosa in questa tazza, qualcosa che non dovrebbe esserci, meglio che non sappia che ho scoperto il suo gioco: vediamo fin dove arriviamo con questa pantomima. Sul vassoio due fettine di pane nero e i riccioli di burro. Ha uno strano aspetto anche il burro, in verità: la scruto di sottecchi e quando mi accorgo che trema (come se avesse paura, la stupida) il sospetto diventa certezza. Cerca di avvelenarmi, la bastarda. Cosa spera, di farla franca, poi? Ah-ha! Che idiota.
Prendo una fetta di pane ed inizio ad imburrarla, mostrando la calma più olimpica. Lei resta lì e si torce le dita nel grembiule: assassina e vigliacca, non ha neppure il coraggio delle sue azioni. E rovina pure il merletto.
Per nascondere il nervosismo, mi propina tutta una storia assurda su un permesso per andare a trovare il marito, ricoverato da non so quanto tempo per non so quale malattia da miserabili in un penoso ospedale a diversi chilometri da qui: riesce persino a spremersi gli occhi fino a farne uscire le lacrime, la bugiarda. La ammiro quasi per la bravura con cui recita.
Ormai sono certa che ha scelto il burro: ci avrà messo del veleno per topi. O l’anticrittogamico per le rose antiche, che bestia; con quel che mi costa quel prodotto australiano pagherei tre cameriere molto migliori di lei, e lei lo spreca così? Ma me la pagherà, me la pagherà e cara.
Rifletto mentre fingo di ascoltarla, passando il coltello con il burro mortale sul pane innocente, così a lungo che la crema bianca viene assorbita dalla crosticina scura. Le dico sì, alla fine, posando il pane sul piattino, e mi pulisco le dita per sicurezza, dovessi dimenticare di aver toccato quel veleno e metterle in bocca sbadatamente.
Ma prima che vada via, la chiamo perché mi aiuti a sollevarmi dalla poltrona.
Alla fine, il mio tè è decisamente freddo. E io detesto bere il tè freddo, mi disgusta.