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L'Ospite, i martiri e i carnefici. Pour mes amis français...
Creato il 04 aprile 2014 da GiovannipaoloferrariQuando ero bambino c'era "'na femmena", come diciamo noi, "Comma' Tresina", che aiutava la mia famiglia a lavorare la terra e a tenere in ordine il giardino. Si occupava anche dell'"Ospite" per eccellenza. Ogni tanto quando mi trovava nell'orto a mangiare fave crude mi diceva: "Ya, belluzzo mio, vieni con me che ti porto a vedere la bestia!" ed io le correvo subito dietro contento e curioso. Nel pezzo di terra che mio padre aveva acquistato Da Zio Peppo e Zia Tresina Gallo, c'era una vecchia e cadente capanna, di pochi metri quadrati e con il tetto insolitamente basso. Arrivati in prossimità della baracca si incominciava a sentire una puzza di rancido e selvaggio, poi eccolo che spuntava un muso enorme dalle sbarre del cancello.Commara Tresina rideva e mi diceva: "U vi, u vi l'amico nostro, com'è bello? Cresce, cresce!" ed io, ormai davanti alla capanna, al primo grugnito mi attaccavo al "vandesino" di Tresina e mi nascondevo dietro di lei impaurito. Lei rideva e prendendo un grosso secchio pieno di avanzi del pranzo e della cena del giorno avanti mi diceva: "Non devi avere paura: u'puorc è buono, ci vuole bene; siamo noi che gli facciamo fare una brutta fine". Il resto della storia la conoscono in molti: quando era il momento Tresina andava da sola a prenderlo, gli metteva una corda al collo e lo portava su uno "jazzo". Il maiale la seguiva perché tutti i santi giorni Tresina lo aveva nutrito, si fidava di lei e, dicendola tutta, gli aveva fatto compagnia: era tutta la sua famiglia! Mentre il grosso animale guardava negli occhi la persona più cara che aveva al mondo, chiedendosi perché lo avesse portato a fare una passeggiata, gli uomini lo prendevano dalle quattro zampe e gliele legavano con delle corde che fissavano a degli alberi o a dei fermi. Il maiale finiva a pancia in giù immobilizzato sul suo patibolo, come in croce. Mentre i grugniti di dolore e disperazione arrivavano fino in paese interveniva chirurgicamente "o'scannaturo", che fissava un colpo secco alla giugulare e il sangue iniziava a sgorgare a fiotti nel secchio che Tresina aveva preventivamente collocato sotto la testa del maiale.Si lasciava cosi, agonizzante, fino a quando anche l'ultima goccia del suo sangue non si fosse riversato nel recipiente sottostante. Lentamente il porco smetteva di dimenarsi e di grugnire: si udiva soltanto un rantolio e il respiro pesante e poi silenzio. Allora mi avvicinavo a Tresina e lei con le lacrime agli occhi mi diceva: "Hai visto, belluzzu mio, lui mi ha seguito, mi voleva bene e io l'ho ingannato!".C'era un'umanità nella ritualità dell'ammazzamento del maiale, che mi ha sempre colpito: come Tresina ero dispiaciuto e mi saliva il groppone in gola quando vedevo quella scena straziante, di quella tortura, ma, in quel contesto, in quella cultura ancora contadina, con quelle persone che parlavano un'altra lingua che capivo solo io; non potevo fare a meno che approvare ed essere complice di quel delitto. In fondo non sono mai diventato vegetariano, pur avendoci provato, proprio perché quando passo davanti a una finestra del mio paese e sento l'odore del ragù, mi viene in mente quando mio padre cucinava "l'annoglia" nel sugo a prima mattina e il profumo che si spandeva per tutta la casa. Sono troppo forti quei sapori, quei ricordi, quelle tradizioni, quell'identità perché qualcuno o qualcosa riesca a portarmeli via. Ma quello che si vede in questo filmato e quello che abbiamo visto tante volte in documentari o in video amatoriali che siano maiali, foche, polli, cani, balene o tonni non ha niente di rituale, di antico e, soprattutto, di umano!Non siamo in una cultura contadina, non c'è da soddisfare i bisogni primari, ma soprattutto è aberrante la logica della serialità, della catena di montaggio, del trattare delle creature viventi come oggetti. Aberranti sono le pratiche: l'alimentazione forzata attraverso tubi infilati giù per la gola riempiedogli lo stomaco in pochi secondi, lo sgozzamento che avviene in una sorta di ruota infernale che blocca le oche (o le anatre) e permette di tagliargli il collo.Non ho mai visto ammazzare un'oca, ma ho visto mia nonna tirare il collo a tante galline, bagnarle nell'acqua bollente, spennarle ed estrarne le viscere. Sapevo che quelle galline erano state i pulcini che avevo accarezzato e con cui avevo giocato nel pollaio, ma quell'azione di mia nonna non mi sconvolgeva, né mi indignava, perché era dettata dai tempi e dalle necessità di quella vita, di quel mondo: era un rito necessario! Altro è soddisfare la domanda del mercato con delle pratiche disumanizzanti. Dico disumanizzanti perché penso a chi lavora in questi stabilimenti: agli operai che si trasformano in carnefici seriali perdendo la loro umanità nella ripetizione del gesto meccanico. Non è solo l'atrocità, pero', che mi sconcerta: non è solo una questione morale, di fatti, quella che pongo. Mi chiedo, a distanza di decenni da quando abbiamo iniziato ad acquistare prodotti inscatolati, confezionati della GDO (Grande Distribuzione Organizzata), ci siamo mai domandati che cosa portiamo sulle nostre tavole? Che cosa mangiamo e facciamo mangiare ai nostri figli? Il consumo di foie gras è enorme in Francia, come in tutto il mondo è enorme il consumo di carni e di prodotti derivati e trasformati dalla carne, ma voi fareste mangiare il fegato di un'oca a cui venga - come riporta Wikipedia - "somministrato con la forza più cibo di quanto essa ne assumerebbe in natura e più di quanto ne assumerebbe volontariamente in allevamenti domestici e di cui l'alimentazione consiste solitamente in grano bollito nel grasso (per facilitarne l'ingestione), che provoca grandi depositi di grasso nel fegato, ottenendo in tal modo la consistenza gelatinosa ricercata dalla gastronomia?"Ritengo che non possiamo più far finta di niente, non possiamo più pensare che questo modo di produzione sia sano o l'unico che possa esistere. Credo che sia venuta l'ora di riappropriarci di una dimensione più umana, legata ai reali bisogni da soddisfare, ad un'economia reale legata alle comunità locali con una filiera di distribuzione corta. Non possiamo più permetterci e sopportare di trovare nei nostri supermercati il pane prodotto con farine che vengono da chissà dove o prodotti che contengono sostanze pericolose per la nostra salute.Bisogna puntare alle filiere snelle e brevi, che distribuiscano i loro prodotti in un raggio di poche decine di km; ma prima, tutti noi, dobbiamo prendere consapevolezza della situazione e boicottare i centri di smistamento della grande distribuzione (supermercati e centri commerciali) e anche quando facciamo la spesa nei piccoli negozi al dettaglio, dobbiamo sempre tendere ad acquistare prodotti freschi, certificati, senza packaging e di origine locale.
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