di Alessandro Puglisi
Una stroncatura a "L'umiliazione" di Philip Roth
L’umiliazione (tradotto da Vincenzo Mantovani, per Einaudi, 2010), è l’ultimo romanzo di Philip Roth uscito nel nostro Paese. Sembra esserci, prima d’ogni cosa, una considerazione non molto lusinghiera da fare, nei confronti dello scrittore americano, autore di opere come Pastorale americana e Il complotto contro l’America per arrivare finanche al più recente e notevolissimo Everyman. L’impressione, infatti, è quella che Roth abbia davvero intrapreso il cammino discendente della sua parabola. Impressione personale, evidentemente, e da suffragare attraverso quanto seguirà.
L’umiliazione presenta un incipit che più diretto non si può: «Aveva perso la sua magia. L’impeto era venuto meno. In teatro non aveva mai fallito, tutto ciò che aveva fatto era stato valido e convincente, poi gli successe una cosa terribile: non era più capace di recitare.» E la storia è già servita: è quella di Simon Axler, attore teatrale di grande fama, che a un certo punto della sua carriera (e della sua vita) si accorge di non avere più il coraggio di salire sul palcoscenico.Sarebbe anche uno spunto di un certo interesse; se non fosse per lo svolgimento o anzi, potremmo dire, per il “non-svolgimento”. La vicenda di Axler lo vede, nell’ordine, buttare alle ortiche il proprio matrimonio, finire in un ospedale psichiatrico, al cui interno conosce una certa Sybil, donna minuta e contrita, con la quale entra in corrispondenza di sensi sulla scorta di una tragedia capitata alla figlia di lei; uscire dal nosocomio, e innamorarsi “per caso” della figlia di due suoi amici attori, Pegeen, di molto più giovane di lui. Scontri di coppia, ricatti, umiliazioni (per l’appunto), e un finale piuttosto ovvio.
Il romanzo, piuttosto breve e articolato in tre parti, intitolate rispettivamente In aria sottile, La trasformazione e L’ultimo atto, potrebbe forse essere visto alla stregua di una tragedia moderna: inutile dire che non ne possiede le proprietà fondamentali. La storia di Simon Axler rimane in bilico tra l’epica scadente e la soap-opera sudamericana. Il narratore poi, una terza persona invadente e che si sente in dovere di spiegare passo dopo passo gli stati d’animo del protagonista, non aiuta nella già penosa impresa di far decollare l’opera. Non è faticoso leggere L’umiliazione, questo no: probabilmente perché non esiste, tra le pagine, un contenuto veramente degno di nota; non c’è una “storia” vera che passi tra le mani.
Axler ondeggia pericolosamente tra la prostrazione e una poco convincente, e altresì tardiva, “rinascita”. Pegeen, comprimaria per gran parte del romanzo, lesbica, indecisa, volubile, rimane piuttosto una figurina a due dimensioni, maggiormente vicina a frustrazioni adolescenziali che al principio di (almeno parziale) disincanto che più si attaglierebbe ai suoi quarant’anni.Forse l’unico personaggio che avrebbe meritato più spazio è proprio la Sybil di cui si accennava, tratteggiata brevemente ma in maniera efficace. La sua storia, che rimane “laterale” e, per certi versi, “latente” per tutto il corso del romanzo, la qualifica come personaggio credibile, davvero immerso nella realtà.
Tempi grami per Philip Roth, dunque. Nel chiuso della cucina in cui Simon e Pegeen discutono animatamente, si consumano piccoli grandi contrasti che, se altri, soprattutto statunitensi, in passato o anche ai giorni nostri, sono riusciti a rappresentare mirabilmente per mezzo di quella che si potrebbe definire una “decadenza delle piccole cose”, il nostro scrittore non riesce, purtroppo, a cogliere nella loro anima, restituendoci quadretti quasi sempre di corto, quando non cortissimo, respiro.
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