Per mia disgrazia conosco bene gli avvoltoi e i frombolieri di cazzate che volano in cerchio attorno alla chiusura di un giornale, ricordo a memoria le parole di solidarietà pelosa, le promesse di aiuto, i vedremo, le sceneggiate di chi ti ha pugnalato alle spalle e che finge di piangere sulla fine di una voce “indispensabile” per l’informazione. Tutte terribili ritualità che in questo momento fanno da contrasto, nella mia personale esperienza con i ricordi di Alfredo Schiavi, di quando in gioventù andava a distribuire i giornali nella Torino operaia assieme a un dirigente di nome Berlinguer.
Ma quel mondo è scomparso da un bel pezzo. E il declino in edicola dell’Unità è cominciato con la privatizzazione della testata che ha fatto del giornale fondato da Antonio Gramsci, una sorta di Minotauro: ancora quotidiano di partito e dunque con l’obbligo di fedeltà rispetto ad esso, con tutto il carico di noia e di ipocrisia che ne deriva, ma nello stesso tempo incitato a sacrificare al nuovo dio liberista, collegato anche ad altri altri vincoli e “sentiment” come direbbero i renziani. Il risultato è stato che via via l’Unità è rimasta a sinistra solo nella misura in cui lo era in etichetta il partito di riferimento e forzosamente mercatista nel resto. Fatto sta che dalle 130 mila copie abbondanti vendute nei primi anni ’90 cala in pochi mesi a 60 mila dopo l’ingresso nel ’97 di Alfio Marchini e Gianpaolo Angelucci, rappresentante di quella imprenditoria legata agli angoli più opachi della politica. Un tonfo che costringe a chiudere le sedi distaccate di Bologna e Firenze, ossia delle città simbolo del vecchio Pci.
E da quella stagione, iniziata paradossalmente proprio mentre, per la prima volta il Pds era al governo, il giornale non si è più risollevato. Eppure l’Unità è stata pioniera sia nella politica del gadget d’essai, se vogliamo chiamare così gli allegati di film in cassetta, sia soprattutto nella rete visto che è stato il primo quotidiano ad aprire un’edizione online, nell’ormai lontano ’95. Ma tutto questo non è bastato e le vendite sono scese sempre più in basso, nonostante l’apparizione e il tramonto di sempre nuovi direttori e di editori fino a scendere sotto quota 30 mila pur con un obbligo storico di tirare il triplo delle copie per essere presente in tutte le edicole. Con tutta evidenza la formula non funzionava: i lettori si ritrovavano tra le mani una sorta di “Repubblica” meno ricca, con meno spazio di manovra, con meno grinta e più conformismo governativo che ha portato al collasso quando è venuto meno Berlusconi e la possibilità di coagulare su di lui il senso residuale della sinistra.
Una storia gloriosa che si chiude definitivamente con una sorta di strampalato e assurdo epitaffio contro la rete e il web che denuncia la senescenza del falso modernismo. Non c’è dubbio che l’Unità sia stata assassinata da Renzi & co a cui bastano le carezze del Giornale o di Libero e che di certo si sentono in imbarazzo coi loro amici e sponsor per quella sotto testata: ” Quotidiano fondato da Antonio Gramsci”. Ma un buon investigatore ci troverebbe anche i caratteri del suicidio: lo confesso da molto tempo – in folta compagnia – non compravo più l’Unità, e raramente ne digitavo l’indirizzo in rete. Per conservare il fegato sano: la formula di quasi completa adesione alle ricette liberiste, passate al vaglio del politicismo più banale e compensate da una vaga quanto automatica riproposizione di stereotipi e feticci sparsi della sinistra convertita, aveva la capacità di irritarmi senza rimedio. Niente che potesse far pensare alla vita e proporre una boccata di aria pura.
Forse è vero, anzi spero che l’Unità non sia morta, che possa, come è già accaduto due volte, risorgere dalla ceneri. A patto però che si abbia la consapevolezza che quelle ceneri sono state create dal triste falò in cui si sono bruciate irrimediabilmente speranze e idee, storia e progetti.