Magazine Racconti
Accendo la tivu e cerco in frigo qualcosa di ancora mangiabile. Pizza surgelata. Apparecchio per uno, tovaglietta, calice di vino, bicchiere per acqua, posate e piatto veri. Niente plastica. Bisogna avere rispetto per se stessi, bisogna amarsi. Spalanco la bocca del microonde e ci infilo la mia "margherita ricca come da tradizione". Nel balconcino della cucina vive rigoglioso il mio piccolo orto di piante aromatiche, protette da mini-serra. "La pizza senza basilico è come una donna senza minne...". Frase tipica di Silver la puzza, Salvatore la puzza da Sciacca, un vero siciliano da commedia all'italiana, con gli occhi chiari e i capelli ricci, allergico all'acqua, ma sciupafemmine, amico della mia vecchia compagnia del liceo. La stessa di Joshua, l'ebreo, ora Joshua il calvo, anche lui coinvolto nel cammino di liberazione dalla scrittura. Tra due giorni mi ricapiterà di vederlo. Chissà. Non so se sperare o temere un altro incontro. Dovrò andarci comunque alla riunione. Ne ho bisogno. Non devo scrivere, non devo, anche se la tentazione è forte, non devo ricominciare, perchè so cosa accadrà dopo. Ricomincerà quello che era cominciato tanti anni fa e che mi aveva portato quasi alla follia. E non voglio più che accada. Ora c'è Julia, ora ho una vita.
Tanti anni fa, dopo l'università, vivevo in una casa molto più piccola di questa, un monolocale con bagno cieco e una finestra che si chiudeva con difficoltà, un divano letto mezzo sfondato e un tavolo di fortuna messo insieme con due cavalletti e un piano di scompensato spesso. Cucina, soggiorno, salotto, vista sul palazzo di fronte. Cosa può volere di più un brillante laureato alla ricerca di primo impiego che si nasconde molto bene? Soldi pochi, pochissimi allora e sogni grandi, come quello di diventare l'Hemingway italiano. Scrivevo racconti che nessuno leggeva, tranne gli amici e la ragazza di turno, vagavo tra un colloquio di lavoro e l'altro, mi svegliavo pieno di ottimismo ed andavo a dormire triste. L'aspetto peggiore e che mi stavo abituando a quella vita. e l'altro. Una sera, dopo una cena pantagruelica con gli avanzi dei due ultimi giorni, avevo voluto riordinare le idee per l'ultimo racconto su una bella risma di carta bianca che avevo rubato la settimana prima dall'ufficio della ditta Giangiacomo Sposini e Figli dal 1954 dove ero stato per un colloquio di lavoro. Era lì, in mezzo a tante altre e si vedeva che non aveva voglia di essere usata per fotocopiare fatture, protesti e conti. Non aspettava altro che essere usata per un sogno. Io la accontentai: mentre la segretaria era in bagno afferrai la risma e la feci sparire tra le fauci della mia borsa vuota che portavo solo per darmi importanza. Tutto era andato per il meglio ed uscii soddisfatto da quell'ufficio anche se non avevo trovato lavoro. Avevo cibo per la mia fantasia, avevo inchiostro, avevo idee e mi sentivo un pò felice. Mi ero rinchiuso nella bolla di luce della lampada del mio tavolo da lavoro ed avevo viaggiato nel buio per buona parte della notte. Avevo attraversato un lago di silenzio interrotto solo da voci lontane di vicini come piccole luci che ne disegnavano le sponde. Fuori un tram fuori sferragliava, i vetri della mia finestra tremavano spaventati. Tutti i miei pensieri erano diventati inchiostro, adesso l'inchiostro era finito. Tentai di ricaricarmi con un bicchiere di vino in busta, ma il suo gusto amarognolo in fondo alle fauci diede il segnale della fine dela navigazione. "Tutti in branda". Non finii di alzarmi dal tavolo. C'era qualcuno nella stanza. Non li vidi, avvertii la loro presenza. Non sapevo cosa fare: fuggire, urlare, parlare. Qualcuno dal fondo della stanza si muoveva verso di me entrando pian piano nelle zone periferiche della bolla di luce. Due paia di gambe, scarpe pesanti. Due sagome apparvero ai lati del tavolo. Guardai prima l'uno e poi l'altro, avrei voluto dire qualcosa. Invece rimasi muto, poi li riconobbi rimproverandomi di non averlo fatto prima. I due protagosnisti dei miei ultimi racconti su una banda di spacciatori di Seattle erano nella mia stanza, ai lati del tavolo a notte fonda. Bud Hassinger e Dave Smear mi fissavano. Era chiaro, stavo sognando. Mi rilassai mentre osservavo Dave girare i fogli che avevo riempito per leggerli."Non mi aspettavo una vostra visita" dissi massaggiandomi gli occhi e pensando che fosse strano provare sonno durante un sogno. Sbadigliai. Loro non risposero, Bud si guardava intorno stupito di essere lì. Hassinger era obeso, non molto alto, impacciato nei movimenti, con le braccia lontane dal tronco come in certi pupazzi per bambini , colorati e rotondi. Mi colpirono le sue mani enormi, lunghe quanto il suo avambraccio e più larghe della sua faccia. Io non le avevo immaginate così. Questo era un segno inequivocabile che i personaggi di un racconto hanno bisogno solo di essere abbozzati, poi cominciano ad evolversi per conto proprio, seguendo sentieri misteriosi ed imprevedibili. Smear invece era alto e magro, triste. Lunghi capelli biondi e sporchi gli coprivano in parte il viso mentre sembrava leggere ciò che avevo scritto. Sapeva leggere o guardava i segni senza senso? Era stranamente ben rasato. Sulla maglietta rossa una scritta nera "Rage against the machine", il nome di un gruppo hard-rock-punk e qualche cosa d'altro. Non ricordavo più, era passato tanto tempo da quando ascoltavo la musica a tutto volume per non sentire altro. Dalla cintura che a fatica teneva su un paio di pantaloni troppo larghi, partiva una catena d'orologio che si indovinava in un rigonfiamento della tasca destra. Le sue scapole erano due pinne di squalo che spuntavano aguzze da un giubbotto militare. Avevo la triste impressione che quella schiena avesse familiarità con le cinghiate alcoliche di un padre fortunatamente poco presente. "Sedetevi, prego...." dissi non essendo sicuro che mi potessero capire. Li avevo immaginati americani, americani della West Coast, ma quello era un sogno, quindi mi avrebbero capito sicuramente. Bud non era sicuro di aver capito bene, ma seguì ciò che fece Dave. Prese una sedia bassa ed una volta seduto la sua faccia rotonda arrivava all'altezza del piano del tavolo. Dove prese uno sgabello come il mio. Li guardai. Ero in presenza di due disperati Don Chischiotte e Sanco Panza, che mi guardavano a loro volta muti, aspettando una rivelazione dal loro creatore. Sorrisi "Volete da bere?" Si guardarono sorpresi ed io cominciai a versare il vino in alcuni bicchieri di plastica che avevo preso con gesto felino dallo scaffale alle mie spalle. Alzai il mio bicchiere e contento come non lo ero da tempo augurai "Prosit!". Loro mi sorrisero senza capire ed alzarono i calici postindustriali. Bevemmo insieme. "Dite un pò, giovanotti, che ci fate qui?" Li chiamai giovanotti perché sembravano molto più giovani di me. Bud non capì subito, aggrottò la fronte e stavolta Dave parlo con una voce sottile e lontana, immatura. "Non sappiamo....forse ci hai chiamato tu... non lo so....".
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