L'uomo con gli occhi come proiettili
Da Miwako
Esco dal lavoro e inizio a camminare. E' l'una passata, il caldo sembra anche più afoso nella variopinta orgia turistica del centro. Ho più fame del solito e sono più fiacca del solito. Eppure ho dormito stanotte. Vero anche che non mangio dalle 7.30 e che ci sono quasi 40 gradi.25 minuti e sono a casa. Mezzora se cammino lenta. Superati i Tedeschi arrostiti dal sole, i Giapponesi cadaverici e sempiternamente muniti di ombrello, i Marocchini con i braccialetti, e i Fiorentini con la ventiquattrore, arrivo finalmente nel quartiere in cui vivo. Un piccolo ingorgo ha bloccato via G.; mentre gli operatori ecologici svuotano i cassonetti ad un'orario decisamente inconsueto, le macchine si addossano le une alle altre, sbuffando insieme a chi le guida. E' un senso unico, la strada è stretta, perciò non resta loro che aspettare. Sul marciapiede, invece, trovo un ingorgo di passeggini, mamme, annessi e connessi. A me, non resta che scendere in strada e dribblare le macchine in procinto di incendiarsi. Cammino in senso contrario al senso di marcia, quindi, presa dalla solita, istintiva curiosità, non mi faccio mancare un'occhiata non tanto fuggevole dentro ai veicoli. Neanche il cinquantenne-in-crisi dell'auto n.1 si fa mancare un'occhiata non tanto fuggevole alle mie gambe diafane. La vischiosità dei suoi pensieri è insostenibile, sposto lo sguardo. Nell'auto n.2 c'è una ragazza con gli occhiali da sole, il finestrino aperto e la mano che tamburella impaziente sulla portiera. Mi guarda per un secondo, poi guarda davanti a sè e dice " Tumulo ai Giacobini". Dubbiosa, inizio a chiedermi che diavolo di frase sia e che ruolo mai possano avere gli amici della costituzione nella sua vita. Poi mi ricordo che le mie capacità di leggere il labiale sono, notoriamente, pessime, e quindi concludo che la frase in questione fosse la meno elegante ma sicuramente più appropriata "'fanculo ai netturbini". L'auto n.3, invece, è abitata da un uomo sulla quarantina. Barba incolta, camicia azzurra leggerissima e un sorriso. Inaspettato. Ha l'aria di chi è appena inciampato nei lacci delle proprie scarpe. Gli sorrido, senza nemmeno accorgermene, e passo oltre. Auto n.4. Un curioso essere umano, tiene le mani strette sul volante, serrate, come i denti. E' un tipo un po'strano. Uno di quelli che, per forza di cose, anche senza volerlo, si finisce per guardare insistentemente, uno di quelli che molte volte sarà pure stato deriso. E' stempiato, oserei pelato, se non fosse per una poco credibile parrucca corvina sistemata troppo indietro sulla fronte per non essere notata. Un caschetto alla Renato Zero è schiavizzato in una coda che non so se migliori o peggiori le cose. E' abbronzato, ovunque tranne sulle palpebre, rigonfie e color alabastro, forse frutto di una strana blefaroplastica. Il collo è sottile, i nervi tesi come corde di violino. Dev'essere minuto. Due braccia esili escono timide da una camicia bianca arrotolata distrattamente ai polsi, troppo aperta su un petto troppo liscio. Nel complesso sembra un personaggio surreale. Credo lui sappia che io lo sto guardando, ma sono certa che non distoglierà lo sguardo dal volante. E invece, d'improvviso, mi ritrovo due cannoni neri puntati dritti negli occhi. Mascara nero, nei miei e nei suoi. Lo guardo sorpresa, studio quei due proiettili che balzano saettanti su di me, poi sulla strada, poi ancora su di me. Insicuri, vagamente ostili, di un'ostilità difensiva, che gocciolano una sofferenza invisibile; cerco di intuire la natura di ciò che sta uscendo da loro, e in mezzo a quello che credo essere dolore frammisto a timore, leggo una supplica "Ti prego, non giudicarmi". Istantaneamente assalita dal dubbio, divenuto poi consapevolezza, che il mio sguardo abbia avuto su di lui l'effetto di un pugnale in mezzo al cuore, distolgo gli occhi che nel frattempo si sono velati di una sottile ragnatela, e proseguo senza riuscire a vedere altro se non i suoi occhi, senza riuscire a sentire altro se non quella preghiera che gli è uscita muta e forse involontaria. Cammino in mezzo ad altre auto, prima di arrivare a destinazione, ma non ne vedo alcuna, non vedo nessuno, vedo solo lui. Ricaccio indietro il pianto mentre salgo esausta i due piani di scale che mi condurranno a casa, al sicuro, da tutto il dolore degli altri, da bagagli emotivi troppo ingombranti che ci portiamo dietro come fanno le chiocciole con le loro case, con cui a volte ci laceriamo i fianchi passandoci accanto, più o meno consapevolmente, da tutto il male che si può causare involontariamente, dalle troppe cose belle spesso taciute, da quelle orribili mai abbastanza celate, dal muro di mare che, ancora una volta, ancora più alto, ci separa gli uni dagli altri.Infilo la chiave nella serratura, apro la porta, non c'è nessuno. Entro in camera, mi lascio cadere sul letto, accendo una sigaretta e lascio cadere pure le lacrime.
L'auto n.4. Quattro come i nostri occhi che si sono detti tutto e niente. Quattro come i secondi in cui tutto e niente è accaduto. Quattro come i nostri piedi, sempre un passo indietro rispetto ai pensieri. Quattro come le quattro piume del disonore, per aver lasciato che i miei pensieri lo colpissero come una manciata di lamette in pieno viso. Mi dispiace, strano uomo con gli occhi come proiettili. Non volevo giudicarti. Non l'ho fatto in realtà, anche se forse l'hai pensato. Ero solo curiosa di sapere chi eri.
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