Ci si sveglia, come spesso accade nelle questioni popolari, fuori tempo massimo. O non ci si vuole affatto svegliare. Il popolo, nobilitato oggi al rango di cittadinanza, sembra non aver fatto grossi passi avanti rispetto al suo progenitore “volgare”. Ha infatti sempre bisogno, per continuare a darsela a bere e proseguire così nel suo rassicurante torpore, di capri espiatori, di “farmaci”, lenitivi e palliativi per non accorgersi dell’horror vacui che ha voluto immedesimare (e non riempire, ché bisognerebbe essere qualcosa per poterlo fare!). De-vertimenti che, per parafrasare Pascal, lo distraggano dalla sua miseria e dalla sua inconsistenza sovracomunitaria. Come la plebe sua anteriore, non vuole responsabilità. Meglio il disimpegno, meglio pascere nel consolante giaciglio di una comune e grigia appartenenza, meglio occultarsi nell’anonimato del “noi”, anziché riscoprirsi autonomi attori del proprio volere.
Come potrebbe, infatti, essere sensibile colui che preferisce questo comodo anonimato alla personalità? E così, vigliaccamente, di fronte a quei reiterati richiami dal mondo, si tappa le orecchie, e lo fa perché ascoltare quella stessa eco esistenziale potrebbe svegliarlo dalla sua illusione, rovinandogli pure il buonumore. Grazie anche a questa insensibilità, l’uomo moderno non sente nemmeno la solerzia verso tutte quelle problematiche legate all’ambiente, all’ecologia, all’inquinamento o alla cura dell’habitat in cui vive. Anzi, se ne frega bellamente, seguita nella sue molteplici insensate attività e continua a consumare, anche l’ambiente circostante. Non si accorge che proprio consumando, paradossalmente, acuisce ancor di più quelle criticità ambientali (ogni uomo, costretto nel proprio insensato “benessere” ad erodere il proprio habitat, produce più di un chilo di rifiuti al giorno). Come una trottola impazzita sta in piedi solo ed esclusivamente grazie alla velocità del proprio movimento, trasforma e produce merda artificiale con la stessa allegra tranquillità con cui se ne nutre, con la serenità di chi ormai non riesce più nemmeno a vedere la concreta possibilità di vivere in maniera a-fecata. Ne intravede la potenzialità forse, quando va bene, ma si ritrae non appena comprende che quella diversa autocoscienza lo porterebbe a dover ridurre i confort e il fittizio benessere a cui preferisce rimanere imprigionato (ipertrofico per necessità “morale”, o meglio per sfuggire alla coscienza, poiché un uomo etico non potrebbe mai diventare un consumatore. Questo sempre novello fruitore medioman, tanto osannato dalla società di massa, deve consumare per produrre, e non viceversa, come sarebbe invece logico sospettare. In tal modo, il suo ipertrofismo fisiologico, compreso quello di generare merda su merda, diventa un’esigenza vitale). Che ne sarebbe, infatti, del sacro Pil, se tutta la paccottiglia, gli imballaggi, le cornici e le colorate confezioni del progresso, non venissero prodotti per rendere appetibili al mercato le sue frivole merci? E producendo meno rifiuti, che fine farebbero quel lavoro, e quei lavoratori impiegati in quegli specifici settori di maquillage? Si ridurrebbe forse proprio quel dominus che è il Pil, lo stesso bisogno di “forza lavoro”? (in realtà non necessariamente, se ci fosse un riciclo “serio”, allargato a tutti i campi della produzione, che rendesse “conveniente” l’aggiustare e il riparare, anziché acquistare prodotti sempre nuovi. Meno rifiuti ma più lavoro, seppur più lento, ma maggiormente duraturo). Ma quest’uomo schiavo dei numeri della finanza, rammollito dal benessere materiale, vincolato all’isterica libertà obbligatoria del consumo, e imprigionato alla dignità del lavoro-reddito, vuole anzitutto orpelli e de-vertimenti che lo distolgano da tutto ciò che potrebbe, invece, farlo sentire una persona viva. Immerso nei suoi stessi rifiuti solo perché non è disposto a rinunciare a quel finto benessere che lo riempie di assenza! E così, con la tonta sfrontatezza di Candide, ci siamo cacciati in un infinito cul de sac senza fondo, per cui il buon lavoratore dovrà consumare per continuare a lavorare, cagare per mangiare; il consumatore sarà invece costretto a logorare risorse ad un ritmo via via più veloce per continuare a mantenere il suo ovattante (quello della carta igienica) stile di vita; il Pil dovrà continuare a correre per non perdere il suo autorevole senso e si dovrà, necessariamente, continuare a produrre una grande quantità di sprechi, di cose che non servono, possibilmente a debito (è solo 100 volte la massa monetaria rispetto al valore di tutte lecose, beni e servizi), pur di non dover ammettere che il meccanismo intero è privo di senso. A questo uomo contemporaneo, probabilmente, servirebbe una netta inversione di tendenza, capace di superare il turbinio di nonsense e l’ipertrofia di oggetti con cui ha voluto occultarsi. Una rinnovata prospettiva che metta finalmente al centro di ogni qualsivoglia progetto proprio l’uomo e l’ecosistema in cui vive, togliendo questa centralità ai vari de-vertimenti sinora escogitati, non ultimi anche il consumare ambiente e risorse per continuare a lavorare in ossequio al dogma “economico”. Cosa dovrebbe essere, ormai, questo demenziale eco-nomos? L’ambiente che detta le leggi (nomos), o invece l’uomo che “nomina” la natura? L’attuale economia, volendo legiferare anche sul nulla, fa più pensare al nomos della eco. Eppure, tutti tronfi della nostra sicurezza, ci siamo persi nella nostra redditizia produzione di “scarti” e rifiuti. Abbiamo la merda fino al collo, e ce ne rallegriamo, perché abbiamo capito, in fondo, che anche quella ha un potere d’acquisto, dà e fa fare soldi, produce lavoro…