"Quando avevo vent'anni, mia madre si innamorò per la tredicesima volta. Lui si chiamava Salvatore, aveva trentanove anni, era avvocato e lavorava presso uno degli studi associati più rinomati della nostra città. Questo era quanto sapevo di quell'uomo prima che venisse a vivere da noi, e per quanto mi riguardava era anche troppo. Non ho mai apprezzato i gusti di mia madre, che in fatto di uomini risultavano quasi imbarazzanti per la loro ordinarietà. Scelte perfette di uomini perfetti: mascella squadrata, bicipite scolpito, bocca carnosa e portafoglio gonfio per completare la sua vita perfetta.Dove li trovasse, non l'ho mai capito. Non che mia madre fosse da meno, comunque. Tutti i maschi della scuola, professori e bidelli inclusi – e, sospetto, anche il preside – le sbavavano dietro quando ancheggiava lungo i corridoi del liceo dove insegnava italiano, che per colmo di sfortuna era stato anche il mio liceo. Alta, bionda e formosissima, catturava tutti gli sguardi vogliosi maschili che io, adolescente acerba e piatta come poche, non riuscivo ad attirare per più di qualche secondo. E per riuscirci dovevo usare tonnellate di trucco e mini raso-passera, che, ora me ne rendo conto, dovevano ispirare più tenerezza che sesso. Il sesso. Anche in questo mia madre dimostrava di essere una donna spaventosamente banale. Cercava l'amore, lei, e per quanto ne sappia non si è ancora arresa nemmeno adesso che ha sessant'anni e tre divorzi alle spalle. La sua è sempre stata una ricerca ostinata e distruttiva, soprattutto per chi le stava accanto. Lo sapeva bene mio padre, liquidato senza troppe cerimonie il giorno in cui l'adorabile mogliettina aveva conosciuto più intimamente il suo istruttore di nuoto, e lo sapevo bene anch'io, che di tanto in tanto venivo svegliata in piena notte da mugolii simili ai versi di un animale selvatico. È questo che ricordo di lei, se ripenso alla mia adolescenza: sguardi distratti, aspre critiche e notti insonni passate a covare odio contro il cuscino salato, umido di lacrime. Ero tutto fuorché una ragazzina felice, ma mia madre non era da meno. Ogni volta qualcosa finiva per andarle storto, e l'unica imperfezione della sua vita di ex moglie di un facoltoso industriale restava l'incapacità di tenersi un uomo. Io ci godevo spudoratamente, soprattutto quando erano loro a mollare lei. Ricordo ancora come bruciavano le sue mani morbide e curate sulle mie guance, quando da piccola mi divertivo a rubarle i trucchi per impiastricciare poi con cura i cassetti della sua biancheria o i gioielli. Se era in un periodo di magra, di notti solitarie e silenziose, perdeva la pazienza per un nonnulla, ingurgitava sonniferi e spesso non riusciva a svegliarsi nemmeno per andare a scuola. Allora si accaniva contro mio padre perché non pagava puntualmente gli alimenti o perché, a suo dire, se n'era andato fregandosene di noi, che rimanevamo pur sempre la sua prima famiglia, eccetera eccetera. Mio padre si era fatto una nuova famiglia e si era trasferito in Germania. Quando mi arrivò per posta la foto di mio fratello – un angioletto biondo e paffuto stretto tra due amorevoli genitori – le diedi fuoco con l'accendino che mi aveva regalato Carlo, il mio primo amore, in ricordo della nostra prima canna insieme. Ne erano seguite molte altre, e altrettante volte ci eravamo incastrati selvaggiamente sui sedili posteriori della sua Ford Fiesta, ma lui continuava a stare con la mia migliore amica, e io iniziavo a stufarmi. Tornando a mia madre, nei periodi buoni, quando, a suo dire, “trovava finalmente l'amore vero”, era una mamma esemplare: niente ritirata (era più comodo che rimanessi fuori dalle scatole il più a lungo possibile), niente regole, schiaffi, rimproveri, e gli alimenti che versava mio padre erano tutti per me. A pagare i suoi conti ci pensava il manzo di turno. Quanto l'ho odiata! L'ho odiata con la specie d'odio peggiore che esista, quello che nasce dalle macerie dell'amore. Una mattina, io e Carlo avevamo deciso di incontrarci, saltando io le lezioni universitarie e lui il lavoro. La giornata era incantevole, e mia madre era in gita con la classe, lontana svariati chilometri dalla città e dalla sottoscritta. Finalmente riuscivo a respirare profondamente. Salimmo le scale del mio condominio come due ubriachi, urtando i muri e aggrappandoci selvaggiamente l'uno all'altra. Quella mattina avevo messo la gonna. Mi eccitava da morire camminare davanti a lui, piegarmi quando sapevo che il decoro avrebbe dovuto impedirmelo, sulle scale mobili del centro commerciale o sulla metro, tra la gente, consapevole che lui non avrebbe potuto toccarmi come si deve. A volte lo faceva, furtivamente, e quelle carezze appena accennate, quegli sfioramenti apparentemente casuali, avevano il potere di eccitarmi più di tutto quello che sapevo sarebbe successo dopo.Mentre camminavamo abbracciati, faceva scendere discretamente la mano ad accarezzarmi il fondoschiena, con naturalezza; ciò mi provocava intensi brividi lungo la schiena, soprattutto se qualcuno, meglio se uomini di mezza età, si era accorto di noi e ci osservava interessato, cosa che tra l'altro accadeva spesso, visto quant'eravamo spudorati.Impazzivo quando tra la folla che si accalcava sugli autobus negli orari di punta, Carlo faceva scivolare una mano calda tra le mie cosce, dischiudendole con la forza per potermi accarezzare in profondità. In quei momenti immaginavo che non fosse lui. Immaginavo uno sconosciuto qualsiasi, un irreprensibile padre di famiglia o un serio uomo d'affari, avvicinarsi di soppiatto e frugarmi ovunque, dentro e fuori, con violenta voracità, fino a sentirlo gemere di piacere. Impazzivo dalla voglia, sentivo inumidirsi il cotone delle mutandine, ma l'orgasmo, quello no, ero convinta di non averlo mai provato. Io e Carlo eravamo ancora avvinghiati quando giungemmo sul mio pianerottolo…" (continua)
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"Quando avevo vent'anni, mia madre si innamorò per la tredicesima volta. Lui si chiamava Salvatore, aveva trentanove anni, era avvocato e lavorava presso uno degli studi associati più rinomati della nostra città. Questo era quanto sapevo di quell'uomo prima che venisse a vivere da noi, e per quanto mi riguardava era anche troppo. Non ho mai apprezzato i gusti di mia madre, che in fatto di uomini risultavano quasi imbarazzanti per la loro ordinarietà. Scelte perfette di uomini perfetti: mascella squadrata, bicipite scolpito, bocca carnosa e portafoglio gonfio per completare la sua vita perfetta.Dove li trovasse, non l'ho mai capito. Non che mia madre fosse da meno, comunque. Tutti i maschi della scuola, professori e bidelli inclusi – e, sospetto, anche il preside – le sbavavano dietro quando ancheggiava lungo i corridoi del liceo dove insegnava italiano, che per colmo di sfortuna era stato anche il mio liceo. Alta, bionda e formosissima, catturava tutti gli sguardi vogliosi maschili che io, adolescente acerba e piatta come poche, non riuscivo ad attirare per più di qualche secondo. E per riuscirci dovevo usare tonnellate di trucco e mini raso-passera, che, ora me ne rendo conto, dovevano ispirare più tenerezza che sesso. Il sesso. Anche in questo mia madre dimostrava di essere una donna spaventosamente banale. Cercava l'amore, lei, e per quanto ne sappia non si è ancora arresa nemmeno adesso che ha sessant'anni e tre divorzi alle spalle. La sua è sempre stata una ricerca ostinata e distruttiva, soprattutto per chi le stava accanto. Lo sapeva bene mio padre, liquidato senza troppe cerimonie il giorno in cui l'adorabile mogliettina aveva conosciuto più intimamente il suo istruttore di nuoto, e lo sapevo bene anch'io, che di tanto in tanto venivo svegliata in piena notte da mugolii simili ai versi di un animale selvatico. È questo che ricordo di lei, se ripenso alla mia adolescenza: sguardi distratti, aspre critiche e notti insonni passate a covare odio contro il cuscino salato, umido di lacrime. Ero tutto fuorché una ragazzina felice, ma mia madre non era da meno. Ogni volta qualcosa finiva per andarle storto, e l'unica imperfezione della sua vita di ex moglie di un facoltoso industriale restava l'incapacità di tenersi un uomo. Io ci godevo spudoratamente, soprattutto quando erano loro a mollare lei. Ricordo ancora come bruciavano le sue mani morbide e curate sulle mie guance, quando da piccola mi divertivo a rubarle i trucchi per impiastricciare poi con cura i cassetti della sua biancheria o i gioielli. Se era in un periodo di magra, di notti solitarie e silenziose, perdeva la pazienza per un nonnulla, ingurgitava sonniferi e spesso non riusciva a svegliarsi nemmeno per andare a scuola. Allora si accaniva contro mio padre perché non pagava puntualmente gli alimenti o perché, a suo dire, se n'era andato fregandosene di noi, che rimanevamo pur sempre la sua prima famiglia, eccetera eccetera. Mio padre si era fatto una nuova famiglia e si era trasferito in Germania. Quando mi arrivò per posta la foto di mio fratello – un angioletto biondo e paffuto stretto tra due amorevoli genitori – le diedi fuoco con l'accendino che mi aveva regalato Carlo, il mio primo amore, in ricordo della nostra prima canna insieme. Ne erano seguite molte altre, e altrettante volte ci eravamo incastrati selvaggiamente sui sedili posteriori della sua Ford Fiesta, ma lui continuava a stare con la mia migliore amica, e io iniziavo a stufarmi. Tornando a mia madre, nei periodi buoni, quando, a suo dire, “trovava finalmente l'amore vero”, era una mamma esemplare: niente ritirata (era più comodo che rimanessi fuori dalle scatole il più a lungo possibile), niente regole, schiaffi, rimproveri, e gli alimenti che versava mio padre erano tutti per me. A pagare i suoi conti ci pensava il manzo di turno. Quanto l'ho odiata! L'ho odiata con la specie d'odio peggiore che esista, quello che nasce dalle macerie dell'amore. Una mattina, io e Carlo avevamo deciso di incontrarci, saltando io le lezioni universitarie e lui il lavoro. La giornata era incantevole, e mia madre era in gita con la classe, lontana svariati chilometri dalla città e dalla sottoscritta. Finalmente riuscivo a respirare profondamente. Salimmo le scale del mio condominio come due ubriachi, urtando i muri e aggrappandoci selvaggiamente l'uno all'altra. Quella mattina avevo messo la gonna. Mi eccitava da morire camminare davanti a lui, piegarmi quando sapevo che il decoro avrebbe dovuto impedirmelo, sulle scale mobili del centro commerciale o sulla metro, tra la gente, consapevole che lui non avrebbe potuto toccarmi come si deve. A volte lo faceva, furtivamente, e quelle carezze appena accennate, quegli sfioramenti apparentemente casuali, avevano il potere di eccitarmi più di tutto quello che sapevo sarebbe successo dopo.Mentre camminavamo abbracciati, faceva scendere discretamente la mano ad accarezzarmi il fondoschiena, con naturalezza; ciò mi provocava intensi brividi lungo la schiena, soprattutto se qualcuno, meglio se uomini di mezza età, si era accorto di noi e ci osservava interessato, cosa che tra l'altro accadeva spesso, visto quant'eravamo spudorati.Impazzivo quando tra la folla che si accalcava sugli autobus negli orari di punta, Carlo faceva scivolare una mano calda tra le mie cosce, dischiudendole con la forza per potermi accarezzare in profondità. In quei momenti immaginavo che non fosse lui. Immaginavo uno sconosciuto qualsiasi, un irreprensibile padre di famiglia o un serio uomo d'affari, avvicinarsi di soppiatto e frugarmi ovunque, dentro e fuori, con violenta voracità, fino a sentirlo gemere di piacere. Impazzivo dalla voglia, sentivo inumidirsi il cotone delle mutandine, ma l'orgasmo, quello no, ero convinta di non averlo mai provato. Io e Carlo eravamo ancora avvinghiati quando giungemmo sul mio pianerottolo…" (continua)
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