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La bambina col vestito azzurro

Creato il 21 novembre 2010 da Fabry2010

La bambina col vestito azzurro

di Laura Badaracchi

Lo sentiva frusciare. Quella sensazione le piaceva, mescolata al rumore che facevano le pieghe arricciandosi ancora di più per la velocità con cui girava. Così ruotava su se stessa fino a farsi venire il capogiro e tutti i colori intorno diventavano improvvisamente sfuocati, indefiniti.

“Smettila, Marta! Rischi di scivolare e di smagliarti le calze!”, le diceva sua madre, senza sollevare il mento dalla lettura. Lei si guardava di sfuggita le scarpe di vernice, mentre nella testa tutto le si mescolava, come quando preparava con i vari ingredienti nella terrina di porcellana l’impasto per il ciambellone: i colori del Po, le nuvole del cielo, le balaustre del Tevere e il tavolino di casa con la lampada di alabastro.

Quando il tumulto nella mente e nello stomaco si placava, Marta alzava lo sguardo sulle fronde, per scovare merli, cardellini o passeri. Il cinguettio per lei era ancora una musica monocorde, priva di sfumature precise. Ma sentiva cantare tutto intorno a lei e nel frattempo fantasticava, immaginando un sole pianista e i fili d’erba violinisti, le siepi trasformate in tamburi e i girasoli mutati in cembali. Batteva il tempo con il piede sulla ghiaia, guardando l’orizzonte; intanto con le mani si sistemava l’arricciatura del vestito azzurro.

Sua madre, ancora rapita dal romanzo fra le mani e dai suoi pensieri intermittenti, non la notava quando si passava le dita tra i capelli, sciogliendoli lentamente per poi raccoglierli di nuovo sulla nuca, ribelli e stretti dal fiocco di velluto. La mamma fissava il suo sguardo in un punto indefinito del parco, mentre ascoltava distratta i suoi racconti fantasiosi, e intanto continuava a sfogliare le pagine del volume, sbirciando furtivamente le ultime per cogliere l’esito finale. “Non era cosa buona cosa da farsi”, le ripeteva la mamma. Ma non riusciva a resistere alla tentazione, facendole l’occhiolino in segno di complicità.

A Marta questa confidenza sembrava una supplica, una richiesta esplicita di mantenere tra loro anche questo piccolo segreto, per seppellire debolezze inconfessabili. Un tacito accordo di silenzio, come quello sulla misteriosa morte del papà, salito su una scala per montare una fioriera sulla balconata della loro casa, ora troppo vuota. Per la mamma era stato uno dei soliti capricci in un noioso pomeriggio domenicale, per il papà una consueta seccatura da risolvere al più presto. Ma lui, poco avvezzo alle incombenze domestiche – di solito affidate alle mani esperte della servitù – era banalmente inciampato sull’ultimo gradino della scala a pioli, precipitando sul selciato come un sacco di grano. Un tonfo sordo, senza grida né altri rumori.

Il sangue, Marta non lo aveva visto; lo ricordava nella bara, il suo papà, vestito in modo elegante e raffinato, come sempre, e profumato con l’acqua di colonia che a lei era sempre piaciuta. Sembrava riposare sereno tra i fiori, pallido e freddo, mentre la mamma la teneva stretta a sé, con le mani così avvinghiate sulle sue spalle che quasi le faceva male.

Aveva sette anni, ma capiva – distratta dall’odore dell’incenso e dalle parole lontane del prete che celebrava commosso quel funerale – che l’amore era svanito da tempo, si era dissolto fra i tradimenti occasionali di suo padre e le frivolezze inconsulte di sua madre, dedita ai profumi e agli abiti (oltre che alle sue amate letture). A tavola parlavano solo con lei – “Quante pagine hai letto oggi? Hai sistemato i tuoi giochi in cameretta? Ti sei lavata le mani prima di venire a pranzo? –, mai fra loro. Marta tentava invano di lasciarli soli; si rifugiava davanti al caminetto, giocando con la sua palla preferita davanti al fuoco. Ma non serviva a nulla: tacevano lo stesso, mentre lei sfiorava quasi con le mani quel silenzio di pietra, freddo come il marmo della lapide.

Per questo, quando il papà era morto in circostanze così banali, lei aveva pensato che la colpa fosse della mamma, dei suoi assurdi capricci. Poi, pian piano, aveva compreso: sua madre era una specie di bambina, solo un po’ più grande di lei. Aveva il diritto di giocare, leggere e sognare, proprio come lei. Così, quando le strizzava l’occhio, storcendo anche la bocca, Marta si mostrava quasi compiacente, complice. Anche se avrebbe voluto tornare ad essere di nuovo piccola: cambiata, lavata, imboccata, coccolata, cullata prima di addormentarsi. Come il suo cuginetto Davide, partito per l’Australia, che non avrebbe mai rivisto.

Il mare, quel giorno, era azzurro come il suo vestito, con i riverberi luccicanti di un sole splendente. Guardando ora in fondo al prato, all’orizzonte, Marta ricordava il pontile della nave gigantesca, le panche consunte di legno scuro, i capelli biondissimi di Davide, ancora in fasce. Lo aveva accarezzato a lungo, osservando le sue guance rotonde e i suoi occhi dalle lunghe ciglia. Aveva dovuto dirgli addio solo poche ore dopo averlo conosciuto, ed era piena di disappunto. Sua madre l’aveva afferrata per un braccio, sussurrandole stizzita: “Dobbiamo scendere, la nave sta per salpare dal porto!”. Glielo ripeteva in continuazione, ora impaziente ora commossa, mentre a sua volta non riusciva a staccarsi da sua sorella, suo cognato e i cinque nipotini. Chissà quando sarebbero arrivati in Australia, pensava Marta.

Seduta sul prato, fissava le margherite. Avrebbe voluto raccoglierne qualcuna per portarle a Davide, vederlo sorridere ancora una volta. Le ricordava, forse, i sorrisi del papà. E poi, da quando lui non c’era più – e non credeva che fosse volato in cielo, perché aveva visto la bara scendere sottoterra con le funi, e con una lastra di marmo sopra come avrebbe potuto lui andare in alto, vicino a Gesù? Non riusciva a capirlo –, non aveva più visto la mamma sorridere. Ammiccare, farle l’occhiolino, quello sì. Ma nessuna luce negli occhi. Prima, qualche volta, la intravedeva quella luce, anche quando comprava un cappellino nuovo o vedeva in giardino un fiore sbocciato per caso, senza la fatica di piantarlo e attendere la sua crescita.

Iris, calle e tulipani. E poi fresie, rose e gerbere. Anche orchidee, anzi: soprattutto. Marta faceva l’inventario dei fiori preferiti da sua madre, ma tornava sempre alle sue margherite bianche e gialle sparse sul prato. Si sdraiava lì, in mezzo a loro, attenta a non stropicciarle troppo, alzando il vestito azzurro e la sottana di sangallo. E poi chiudeva gli occhi per sentire il calore del sole sulle ginocchia (lì non arrivavano i calzettoni di cotone), sul naso schiacciato, sulla fronte abitata da una frangetta impertinente. Lentamente si assopiva, accarezzandosi una ciocca ribelle di capelli sfuggita alla treccia e ai fermagli sulla fronte. Bastava l’ombra di sua madre a svegliarla. “È ora di andare a casa”, ripeteva, mentre lei assaporava sorridendo il momento in cui si sarebbe sdraiata di nuovo sull’erba, avvolta dal profumo e dai colori delle amate margherite. Circondata dalla luce, a occhi chiusi, con il concerto degli uccelli a farle compagnia.



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