L'incipit del racconto
Primo capitolo - Ascesa di una famiglia
Nell’anni della secunna mità dell’Ottocento, Luigi Sacco è solo uno svelto e sperto picciotteddro che travaglia campagne campagne come jorna tante agricolo stagionale nelle terre vicine a Raffadali, il paese indove che è nato. Solo chiste sono le sò ricchizze: la giovintù, dù vrazza forti e ’na gran gana di travagliare. Per il resto, gli ammancano persino le scarpe.È innamorato perso, e ricambiato, di una beddra picciotta, come lui jornatante, che si chiamaAntonina Randisi.I dù vorrebbero maritarisi e aviri tanti figli, ma sunno troppo scarsi a dinaro, guadagnano appena appena quello che abbasta per mantinirisi in vita e per aviri quel minimo di forza che gli consente di travagliare dalla matina alla sira.È dura assà la vita del jornatante. In primisi, il travaglio non è continuativo per tutto l’anno, ma è, come si è detto, stagionale. Veni a diri che per tri misi si travaglia e si mangia mezza scanata di pani con una sarda e per trimisi non si travaglia e non si mangia, se la fortuna t’aiuta, autro che un tozzo di pani e tanticchia di cicoria.Quann’è tempo di cugliuta (mandorle, fave, olive, uva, frumento), i jornatanti si radunano alle sett’albe in un posto stabilito, che in genere è ’na chiazza del paìsi, e qui aspettano i camperi che, per conto dei patroni, vengono a «fari la chiurma», vale a diri a reclutare un certo numero di pirsone, mascoli e fìmmine, per portarle nei campi.La possibilità che uno sia chiamato dipende tutta dal camperi che non sempri sceglie i jornatantisecondo la capacità di rendimento o la gana di guadagnarisi la scarsa paga, ma spisso e vulanteri obbedisce alla mezza parola di un mafioso, o di un amico, o di un amico dell’amico, opuro addecide chi sì e chi no di testa sò, a secunna se uno gli sta simpatico o ’ntipatico.Chi inveci macari ’na vota sula ha provato a raggiunari col camperi, vale a dire a discutere la pagao l’orario di travaglio, o a lamintiarisi di qualichi soppruso o anghiria, se lo può scordari d’essiri ancora chiamato. Tanto valiva che sinni ristava corcato e se non autro si guadagnava tanticchia di sonno.S’accomenza a travagliare alle prime luci del jorno e si finisce quanno cala la sira.Questa era la dura vita del bracciante, nei primi decenni del novecento: in questo racconto Camilleri racconta la vicenda della famiglia Sacco, di Raffadali che da onesti agricoltori dovettero darsi alla latitanza, per sfuggire allo stato e alla mafia. Divennero, per una definizione data dal prefetto Mori, la “nota banda Sacco”.
Avrebbero potuto diventare una delle tante oneste e laboriose famiglie, di quelle in cui si vive tutti assieme, fratelli e sorelle, cognati e cognate. Nipotini e nonni. E invece, no: «Ma c’era la mafia», dice ad un certo punto del racconto la voce narrante dell'autore. La storia di questa famiglia avrebbe potuto essere ben diversa se si fossero piegati alla mafia, la mafia rurale di quegli anni, non meno feroce della mafia moderna. Una mafia che taglieggiava gli agricoltori, che minacciava e arrivava anche ad uccidere chi non si piegava al loro dominio.
C'era la mafia a Raffadali, e i Sacco erano persone oneste e per di più anche di idee socialiste. Di quel socialismo caritatevole per cui ci si aiuta tra persone in difficoltà. Forse, per quegli anni, era una doppia colpa. Quando i Sacco subiscono un sopruso da parte della mafia, che li ha già minacciati, si rivolgono allo stato, vanno a fare una denuncia ai carabinieri del Re. Inutilmente perché loro, l'istituzione, sono troppo pochi per far rispettare giustizia. E forse, nemmeno c'è la volontà di mettersi contro quell'antistato che è la mafia. Non per tutti i carabinieri, forse. Minacce dopo minacce, i Sacco vengono messi in mezzo, con false accuse (di furto di bestiame), con falsi testimoni. Vanni viene arrestato e finisce in carcere, al fratello Alfonso viene ritirato il porto d'armi dai carabinieri, senza alcun motivo, spingendolo di fatto, a darsi latitante per avere modo di difendersi. Perché la mafia non intende in alcun modo lasciare senza risposta la loro minaccia: non può accettare che esistano delle persone che si ribellino. Durante la loro latitanza, vengono affibbiati ai fratelli Sacco diversi omicidi, tra cui i due capimafia di Raffadali (Cuffaro e Terrazzino). Ma viene anche ucciso il padre, Luigi: strangolato presumibilmente dalla mafia mentre tornava dal carcere, per una visita a Vanni Sacco. Lo stato da una parte, che era nel frattempo diventato stato fascista (e che dunque aveva in odio i socialisti) e la mafia dall'altra (dietro cui si nasconde la mente dell'avvocato C.): sono queste le cause che li spingono ad una vita in fuga, a nascondersi dentro le grotte, armati come un piccolo esercito, a doversi guardare le spalle per colpa delle delazioni di qualcuno. Vanni, Salvatore e Alfonso, tre dei figli di Luigi Sacco. Latitanti dal 1922 al loro arresto nell'ottobre del 1926, per opera delle forze speciali del super prefetto Mori. Il prefetto di ferro, mandato da Mussolini per combattere con pieni poteri la mafia. Pieni poteri che significano ricorso alla tortura, il non rispetto delle leggi dello stato, la creazione di prove e confessioni false. È proprio Cesare Mori che conia l'espressione “banda Sacco”, che viene fatta circolare sui giornali per instillare nell'opinione pubblica (quelli che leggono i giornali almeno) l'idea che i Sacco non sono dei Robin Hood che combattono la mafia laddove lo stato è assente o connivente. Ma semplicemente dei briganti. Mori e dietro di lui il fascismo, devono distruggerne l'immagine prima di doverne distruggere il corpo. Nel maggio 1926 le forze speciali circondano Raffadali: vengono arrestati senza prove i parenti, donne e vecchi compresi, anche il sindaco, socialista, per complicità. Per trovare dei testimoni che giurino sulla colpevolezza dei Sacco negli omicidi loro imputati, si ricorre alle minacce e alla tortura. Camilleri arriva a citare versi del romanzo di Manzoni, “Storia della colonna infame”: «Veda quello che vole che le dica, le dirò».
A vedere i Sacco a Mori fu un personaggio che nel libro è chiamato commendatore V.: a lui i fratelli si erano rivolti per chiedere un accordo con lo Stato. Sarà poi V. che diventerà in seguito sindaco della città, dopo l'arresto del sindaco socialista Di Benedetto.I Sacco vengono catturati il 15 ottobre 1926: circondati in un casolare dalle forze speciali, arriva per loro il momento della verità. non hanno mai sparato alle forze dell'ordine, non hanno ucciso degli innocenti. Di fronte al bivio se sparare contro lo Stato e rendersi così colpevoli veramente, o arrendersi, scelgono la seconda strada.
Ma per quei soldati, non è abbastanza: la cattura si trasforma in un linciaggio che viene a stento fermato da un ufficiale. La loro cattura e il processo è un trionfo per Mori: per la loro cattura lo stato ha speso qualcosa come 9 milioni di lire. Si poteva costruire una città.
E invece quei soldi sono serviti per la farsa, per l'enorme caccia all'uomo.
"Mori ottenni la testa d'importanti personaggi del fascismo siciliano come appunto Cucco e il generale De Giorgi e mannò in carzaro capimafia storici come Vito Cascio Ferro, Calogero Vizzini,, Genco Russo.Con loro, centinara di mafiosi vanno a stipari le celle.Apparentemente, il fascismo abbattì la mafia imponendo non la liggi, ma la liggi del terrore.Ma com'è che appena caduto il fascismo, la mafia tornò a nessiri cchiù forti e potenti di prima?Scrive Dennis Mack Smith (Storia della Sicilia medioevale e moderna, Bari 1970):«Se la mafia fosse stata solo un'associazione, invece che un modo di vivere, forse Mori avrebbe potuto sopprimerla almeno per un certo periodo, ma in realtà le sue complesse cause sociali ed ecnomiche non potevano essere rimosse in così breve tempo o soltanto con questi metodi.Forse in certi ambienti c'era solo il desiderio di ottenere un'apparente vittoria di prestigio; e Vizzini e Russo [i due capimafia arrestati da Mori] furono in seguito rilasciati per “mancanza di prove”».La classica mancanza di provi sempri opportunamente adottata dai judici sia con la democrazia che col fascismo”.Pagina 97
Per i i fratelli Sacco arriva ora la condanna all'ergastoli e il carcere: a Ventotene Salvatore ha modo di conoscere Terracini, mentre Vanni e Girolamo incontrano Gramsci di cui diventano amici.
Il primo ad uscire dal carcere, nel 1960, è Girolamo che si muove subito per chiedere la revisione del processo: grazie anche all'interessamento di Terracini stesso, arriva prima la grazia, nel 1962, concessa dal presidente Segni.
Un “western di cose nostre”, scrive Salvatore Nigro nella terza di copertina: ma è un western molto italiano che racconta del confine molto permeabile tra stato e mafia, dell'ipocrita lotta alla mafia da parte dei fascisti (che si fermò quando arrivò a toccare gli interessi degli agrari e Mori venne richiamato a Roma), di una banda di giustizieri che diventa tale per necessità e per le lacune di uno Stato assente.
Dall'intervista dell'autore a Repubblica:
Come si è imbattuto nella banda Sacco? «Il figlio di uno dei protagonisti mi ha fornito i documenti, gli atti del processo e il memoriale dello zio, Alfonso Sacco. Da cui si evince l' accanimento delle istituzioni contro una famiglia di onesti lavoratori, spingendola a oltrepassare il confine della legalità».La scheda del libro sul sito Vigata.org e su Sellerio.it Il link per ordinare il libro su Ibs e Amazon
Perché accade tutto ciò?
«I Sacco sono socialisti, e forse comunisti dopo la scissione di Livorno del 1921, e questo il regime fascista non può tollerarlo. La loro ribellione alla mafia inoltre mette in discussione gli equilibrio del territorio. La mafia chiede il conto con le lettere di estorsione e loro vanno in caserma a denunciare. Una, due, tre volte. Inutilmente. Anzi, a frittata rivoltata,è Vanni, uno dei fratellia finire in galera, per una falsa accusa di furto. Non solo, viene anche aiutato a evadere per spingerlo alla latitanza. Quando i Sacco capiscono che lo Stato è sordo al loro urlo di aiuto, anzi è sfacciatamente nemico, cominciano a farsi giustizia da soli. In questa guerra cadono due capimafia e da qui in un tragico crescendo i cinque fratelli, Vincenzo, Salvatore, Vanni, Girolamo e Alfonso, si ritrovano dentro una vita che non è la loro. Di giorno e di notte a scansare agguati e tradimenti. Diventano la banda Sacco, a cui accollare ogni nefandezza. Alla fine devono rispondere di sette omicidi. E tre di loro si beccano l' ergastolo e gli altri due oltre un decennio di galera. Ma che briganti sono, visto che non rubano, non ricattano, non fanno male a una mosca? Lottano contro la mafia e sono socialisti, ecco la loro colpa».
Lei paragona questa vicenda alla manzoniana "Storia della colonna infame". Non le pare una forzatura? «Per niente. E a chi possiamo paragonare una persecuzione scientifica, a freddo? Prove contraffatte, riaperture di inchieste archiviate, atti truccati, testimoni intimiditi dai magistrati, processi con la condanna incorporata. Una cosa immonda. Così mentre il prefetto di ferro a Gangi esorta la gente a ribellarsi alla mafia, va a Raffadali con una schieramento di forze spropositato per catturare i cinque fratelli».
A proposito, che idea si è fatta della campagna di Cesare Mori contro la mafia? «Tutto fumo. Il prefetto ha fatto volare quattro stracci e non ha toccato i pezzi da novanta. Ne è prova che alla fine del fascismo i Genco Russo e i Calogero Vizzini sono tornati in auge come se nulla fosse. È debellare la mafia questo? Non mi pare».
La questione mafia, con la sua scia di inquietudini, oggi è sempre di attualità. Cosa ne pensa della presunta trattativa tra Cosa nostra e lo Stato, oggetto di un processo a Palermo? «Altro che presunta. Per me la trattativa c' è stata, eccome. Il capo dei capi, mettiamo Provenzano o Riina, si è trovato davanti un qualche ufficiale a cui ha chiesto chi rappresentasse. E di fronte ai nomi e alle circostanze addotte il contatto è andato avanti. Come e fino a dove non ci è dato di sapere. E nutro poche speranze che dal processo scaturisca una qualche verità che faccia chiarezza».
Quando scriverà un romanzo che indaghi in questa direzione? Magari partendo dalle stragi di Palermo. Chissà come si muoverebbe il suo Montalbano? «Lasci stare il commissario di Vìgata. Lui si trovaa suo agio negli intrecci di provincia. Per la mafia c' è la Direzione distrettuale antimafia. Le stragi sono ancora troppo vicine per consentire uno sguardo più distaccato».
Perché la mafia la fa entrare solo di striscio nelle sue trame? «L' ho detto altre volte. Quando lessi "Il giorno della civetta" di Sciascia restai affascinato dalla figura di don Mariano Arena. Allora ho giurato che non avrei mai corso il rischio di esaltare un boss, seppure involontariamente. Per il libro sulle stragi comunque un pensierino ce lo farò. Lì non ci sono boss, ma solo carnefici».
I Sacco condividono la cella con i comunisti Gramsci e Terracini. Lei però registra questi contatti e passa oltre. Come mai non ha dato più spessorea queste presenze, magari aiutandosi con la sua inventiva? «Come romanziere avrei avuto una grande voglia di metterci del mio. Però ho voluto attenermi alle carte che non mi dicevano di più. Però scrivo che i tre ergastolani sono stati graziati dal presidente Segni grazie all'interessamento di Terracini».
La sua ricostruzione ha un impianto anomalo rispetto agli altri suoi libri storici con in coda quindici note che ricostruiscono gli sfondi delle vicende di ogni capitolo. Un qualcosa in più. Perché?. «È stata un' idea di Elvira Sellerio. Io avevo messo ogni nota dopo i capitoli. "Così non funziona", mi disse, "disturba la narrazione". Aveva ragione». Quindi il libro è stato scritto quando donna Elvira era ancora viva? «Sì, cinque anni fa. La stagionatura fa bene agli scritti».
Salvatore Silvano Nigro nel risvolto di copertina annota che lei rappresenta la sua solita Sicilia rurale, assolata e arida... «Sì è questa l' isola che amo. La Sicilia del mare che pure è nel mio cuore, in questo periodo mi fa soffrire. Che pena le stragi nel Canale. Quei poveri morti, donne incinte, bambini, uno strazio. Il sindaco del mio paese, Porta Empedocle, l' altro giorno mi ha detto che nel porto erano allineate 400 bare, le vittime degli ultimi naufragi. E chi sopravvive viene incriminato, colpevole di essersi salvato. Vergogna».